Europa e America del Sud dentro la globalizzazione liberista possono sembrare mondi vicini, eppure rimangono molto lontani quando si tratta di interpretarne i cambiamenti sociali e politici che si sono susseguiti durante i primi due anni della pandemia. Il Covid-19 ha sconvolto non solo i piani della struttura economica capitalista da continente a continente, non solo ha fatto fibrillare le borse e costretto grandi magnati a ridefinire le ragioni e le finalità produttive, occupando nuove fette di mercato, reinventandosi e ricercando sempre maggiori interventi pubblici a protezione degli interessi esclusivamente privati.
Mentre nel Vecchio Continente l’Italia di Mario Draghi viene elogiata dai quotidiani illustri, punto di riferimento del gotha imprenditoriale internazionale, mettendo a confronto il Bel Paese sulla “locomotiva d’Europa“, quella Germania che ora cresce del +2,3% a fronte del nostro PIL balzato proprio in questo anno al +6,5%, frutto anche della gestione dell’emergenza sanitaria e delle promesse redistributive del PNRR praticamente alle sole imprese, l’America Latina si allontana dal modello liberista scegliendo presidenti e governi che soppiantano ferrivecchi nostalgici del pinochettismo, che allargano il campo progressista – marcatamente di sinistra – e che fanno ben sperare per le presidenziali brasiliani.
Sono due idee di rapporto tra economia e popoli, tra struttura e sovrastruttura (marxianamente parlando), nettamente opposte.
Da un lato Mario Draghi, Emmanuel Macron e il neocancelliere tedesco Olaf Scholz si confrontano per creare una trilaterale che sia il nuovo punto di convergenza di interessi socio-politico-economici in aperta sfida al blocco sovranista dei paesi di Visegrad che tenta l’Opa sulle istituzioni di Strasburgo e Bruxelles (mirando ovviamente ad un condizionamento delle scelte di Francoforte); dall’altro lato il Venezuela di Maduro, il Perù di Castillo, il Nicaragua di Ortega, il probabile futuro Brasile di un Lula ora in grado di fronteggiare e battere il conservatorismo neofascista di Bolsonaro e, ultima ma non ultima, Cuba, stanno sostenendo un “frente amplio” che va ben oltre la grande vittoria del giovane Gabriel Boric a Santiago del Cile.
Dentro il contesto di quella globalizzazione citata all’inizio, che include le più svariate declinazioni del liberismo sul piano nazionale (e continentale), si fronteggiano adesso quattro blocchi che si possono distinguere abbastanza nettamente (fatte salve sempre le opportune differenze, caso per caso): l’asse tra Nord America ed Europa, la Russia di Vladimir Putin con nessi e connessi i suoi satelliti bielorussi e kazachi, la Cina e una America del Sud che è, al momento, il punto geopolitico riemergente, quello che può offrire una terza via ad autoritarismi consolidati nell’alleanza con un sistema di mercato resiliente rispetto alle mutazioni interne dei singoli Stati. Soprattutto se si tratta di potenze nel vero senso del termine: economiche e, per questo, anche militari.
La vittoria di Gabriel Boric in Cile non può non aprire un varco di speranza nella sinistra europea, ed anche in quella italiana. Ma affinché questa speranza non resti solo un astratto concetto visionario, intriso di entusiasmi e begli slogan, serve riflettere sul tipo di forze anticapitaliste, progressiste e riformatrici che abbiamo in Italia: il Frente Amplio, che ha avuto l’appoggio del Partito Comunista e di larga parte dell’alleanza della sinistra più “radicale” “Chile Digno“, non è paragonabile al centrosinistra del nostro Paese.
Per quante differenze possano intercorrere tra Boric, tra la sua “Convergencia Social” e le forze più marcatamente anticapitaliste, sommate a quelle antiliberiste e critiche verso l’economia di mercato, è molto difficile poterle vedere così distanti fra loro come da noi invece è possibile immaginare un solco incolmabile tra Rifondazione Comunista e il Partito Democratico. Un certo snobismo politico, oltre tutto, impregna un culturame tutto italico, spocchioso e altero, tanto da ritenere i comunisti italiani non dei possibili alleati per migliorare le condizioni sociali dello Stivale, ma un ingombrante arnese del passato, un ostacolo verso quella “modernizzazione” che è al centro di ogni azione di governo.
Il problema della sinistra italiana, schematizzato al massimo, sta nell’esistenza di un fronte ampio social-liberista e di un altro fronte ampio e frammentato di formazioni comuniste e socialiste incapaci di esprimere una proposta di alternativa al dualismo esasperante tra la visione ordo-capitalista del centrodestra, conservatore e sovranista, neonazi-onalista, omofobo, clericaleggiante e xenofobo e quella più liberale del centrosinistra.
L’asse che Draghi e Macron hanno iniziato a creare col “Trattato del Quirinale” è la prima pietra di una trasformazione politica di una Europa in seria difficoltà dopo il cedimento tedesco davanti alla pandemia: una mancata tenuta economica che, di riflesso, condiziona naturalmente il cammino politico e sociale della Germania dentro una UE già in grande crisi per le ondate migratorie, per la minaccia russa all’espansionismo della NATO, con una Turchia che preme nella stessa direzione putiniana (di destabilizzazione del quadro occidentale) pur essendo nell’Alleanza Atlantica ma dovendo mantenere e allargare la propria sfera di influenza sul Medio Oriente e sull’area mediterranea, dal Mar Rosso a Gibilterra.
La riorganizzazione liberista dell’Europa, orfana dell’importante presenza britannica al suo interno, è un piano che non riguarda solamente la ricollocazione della UE nel globale contesto planetario, in una fase di concorrenza dei mercati, di guerra degli indici borsistici e di speculazioni finanziarie segnata profondamente dalla pandemia. Il nuovo tripartito Roma – Parigi – Berlino diventa tanto necessario al capitalismo continentale, quanto più le tensioni internazionali si acuiscono senza la necessità che si scatenino nuove guerre guerreggiate.
Sono sufficienti le prepotenze economiche cinesi, le possibili bombe demografiche africane e le crisi del liberismo nordamericano ad agitare i sonni di quelle cancellerie europee che devono rispondere ad una turbolenza interna dei mercati con ricadute pesanti su paesi della UE che hanno tutto da guadagnare nello sfruttare questi scenari di crisi per garantire ai propri assetti politici una stabilità che, altrimenti, sarebbe sempre molto precaria.
La sinistra europea e italiana, stretta tra la seduzione governista, tra la compromissione permanente, tra l’alterazione incontrovertibile dei propri princìpi di uguaglianza sociale barattati per quella solamente formale e soltanto civile, e l’inadeguatezza di un richiamo alla coesione, all’unità di classe dei lavoratori, dei precari, degli studenti e dei pensionati fatto da forze praticamente incapaci di organizzare politicamente questo conflitto, percorre due vie opposte e parallele: la marginalizzazione – per così dire – “istituzionale“, che la pone in netta opposizione ai bisogni dei ceti meno abbienti, dal mondo del lavoro a quello delle partite IVA; di contro, l’altra marginalizzazione, quella subita, indotta e patita, quella che mantiene intatti gli obiettivi massimi ma che non è in grado di realizzare quelli minimi.
La sinistra cilena, se paragonata alla nostra, appare molto più capace di conservare una autonomia critica nei confronti del potere istituzionale, arrivando però ai più alti uffici della Repubblica, alle stanze un tempo abitate da Saldavor Allende. La memoria scottante del passato pesa su ogni elezione: ed è giusto che sia così, altrimenti il Cile non avrebbe saputo rialzarsi dall’esperienza della dittatura di Pinochet, dalla transizione claudicante dopo il 1990, divenendo un Paese nuovo, non più reazionario e vandeano, sciogliendo un legame insano tra istituzioni e militarismo, tra classe dirigente e alte sfere delle forze armate.
Il cambiamento alla presidenza degli Stati Uniti d’America non ha portato tutt’altro che ad un governo progressista, ma ha fatto in modo che la pressione imperialista dello Zio Sam fosse meno asfissiante e claustrofobica sul “giardino di casa“. Il “pericolo rosso” di un tempo oggi si ripropone in forme differenti, così come lo stesso dominio statunitense su vaste aree del globo ha cambiato espressione: la tragedia dell'”esportazione della democrazia” passa per condizionamenti della vasta opinione pubblica, preparata con fantasie complottiste sul Covid a resistere alla dura realtà delle contraddizioni irrisolvibili del capitale.
La condizione sociale di interi popoli è occultata dalla creazione di nemici artificiali, da seduzioni mercantiliste e da un neo-consumismo che premia l’illusorio benessere del primo mondo mentre in Africa, in tanta parte proprio dell’America Latina e di un’Asia meno efficiente del gigante cinese la prima dose del vaccino anti-Covid è ancora un miraggio.
La sinistra cilena, quella brasiliana e i fronti di resistenza honduregni, venezuelani e cubani sembrano aver capito che ad un tipo di presunto e presuntuoso sviluppo ne va opposto uno esattamente capovolto. La sinistra italiana, quella inopportunamente (e volutamente per questo) definita tale dai mass media, attrice di punta del nuovo blocco di centrosinistra, sostiene invece le ragioni dell’economia di mercato da decenni. La perdita di fiducia dei lavoratori nelle forze sociali, ed anche nelle idee che le hanno ispirati per tanto tempo, è la conseguenza che ancora oggi siamo costretti a subire, rasentando un pericoloso declivio di rassegnazione.
Per cui non sappiamo più se siamo noi i soggetti primi della trasformazione politica o se dobbiamo invece abbandonare la nostre volontà e lasciarci portare dagli eventi, tradendo così la dialettica tra i rapporti di forza, ignorandoli e attendendo messianicamente un qualche intervento a noi esterno (ed estraneo) che scompagini il tutto e rimetta in moto la domanda di sinistra da parte di una vasta fascia di popolazione e, di conseguenza, l’offerta politica e sociale.
Intanto, mentre ci pensiamo, studiamo il fenomeno cileno, il fenomeno sudamericano.
MARCO SFERINI
21 dicembre 2021
foto: screenshot You Tube