Questa volta è la sincerità a trionfare sul sindacalese: uno sciopero ha in sé, soprattutto se è generale, se coinvolte tutte le categorie lavorative, un fatto e un atto anche politico. Lo è perché fronteggia il dirimpettaio governativo che si propone di andare avanti con una legge di bilancio dove la redistribuzione delle risorse del PNRR si innerva nel tessuto sociale tanto poco, dirottando gli oltre 200 miliardi europei verso il mondo dell’impresa piuttosto che su quello del lavoro, da costringere lo stesso Draghi a mettere mano a tagli della spesa pubblica per finanziare la contenibilità del caro-bollette.
Nemmeno il Presidente del Consiglio, che è uomo sovradimensionato nella considerazione un po’ generale creata dalla narrazione agiografica che ne fanno da Francoforte a Roma, ha il potere magico di eliminare le contraddizioni del sistema economico che deve preservare, tutelando i privilegi della classe padronale indicata coram populo come l’esempio per antonomasia di vero impegno per il “bene del Paese“. Una locuzione stana, ipertrofica nella quotidiana vulgata della politica italiana che si nutre ora, per la maggiore, di dibattiti sulle varianti del Covid e sulla minoranza di No Green pass e No vax: pure queste fortunate vittime illustri di una esaltazione spropositata per dimensioni e, soprattutto, per spessore socio-politico-culturale.
Dice bene, dunque, Maurizio Landini quando afferma senza troppi giri di parole e finzioni che lo sciopero generale è uno sciopero assolutamente politico: lo è perché, oltre ad intervenire nel merito delle questioni poste dal governo, che ha avuto un atteggiamento scostante e narcisisticamente supponente nel confronto con le organizzazioni sindacali, vuole suonare la campanella ad un centrosinistra da un lato e ad una sinistra dall’altro che paiono veramente in catalessi.
Se per il centrosinistra tutto ciò è assolutamente comprensibile, vista la partecipazione totalizzante nell’esecutivo di “unità nazionale“, molto meno lo è per la sinistra che oggi si trova nella condizione di una extraparlamentarità quasi bulgara, se si fa eccezione per due deputati di Sinistra Italiana alla Camera e un senatore ex pentastellato passato tra le fila di Potere al Popolo. Qui sta tutta la forza istituzionale che il progressismo moderato e quello più radicale hanno nel stabilire un collegamento tra piazza e palazzo, tra persone, lavoratori, studenti, pensionati e tante minoranze sociali e civili con le alte aule dove si formano le leggi.
Si pone quindi un tema ben preciso: la sinistra (socialista democratica, comunista, di alternativa, ecologista, ecc…) sostiene ogni volta che c’è un congresso, un dibattito, un momento di riflessione aperta e diffusa, di voler connettere il tessuto sociale del Paese e di unirlo ad una nuova visione economico-ecologica, strutturale e sovrastrutturale. Cambiare i rapporti di forza tra le classi per cambiare il Paese nella sua interezza. Ogni volta che ci si lambicca il cervello su questi temi di vasta portata, si finisce col fare della insopportabile retorica: “ricominciamo“, “il tempo è ora” e ci si attribuisce un ottimismo che va ben oltre quello necessario a mantenere viva una organizzazione partitica o di movimento.
Pensando di essere in qualche maniera ancora utili alla Causa (quella con la C di comunismo maiuscola), si incede senza voler vedere i fatti concretamente reali: Rifondazione Comunista, Potere al Popolo, PCI, Sinistra anticapitalista (che hanno un tratto comune nell’anticapitalismo e nell’antiliberismo) e Sinistra italiana, Possibile, Europa Verde (che hanno invece un tratto comune nel socialismo democratico e nell’ambientalismo) non sono in grado unitariamente, e tanto meno singolarmente, di assolvere ai compiti che un partito o un movimento dovrebbero poter rendere concreti attraverso la loro organizzazione e la diffusione delle loro idee dentro e fuori le lotte sociali e civili.
Queste forze politiche sono sempre più delle debolezze endemiche di una sinistra e di un progressismo italiano che è regredito anche a causa della spocchia autoreferenziale che si è dato per giustificare una esistenza che non fa onore alla storia di ciascuno, alla storia di quel campo che, per ideologia, per vocazione laica e politica, è differente rispetto all’alternanza tra centrodestra e centrosinistra.
A dire il vero queste considerazioni valgono di più per soggetti marcatamente riferibili ad un comunismo del XXI secolo, ad un anticapitalismo non mascherato dietro formule riformiste e governiste. Ma si può fare invece con contezza, sapendo che riguarda tutti i partiti citati, quando si intende discutere delle difficoltà organizzative, della strutturazione sui territori e del rapporto diretto, della comunicazione con i soggetti primi della trasformazione sociale: i lavoratori, i precari, i disoccupati, gli studenti, i pensionati e tutti coloro che vivono in condizioni di estremo disagio e sfruttamento.
Non sarebbe meglio che ci confessassimo, come in una grande seduta di psicoterapia politico-comportamentale, che si è ormai chiusa una stagione, almeno nelle forme partitiche che abbiamo conosciuto fino ad ora dal 1989 in avanti, e che occorre ripensarsi per innovarsi e ritrovarsi magari in una più ampia collaborazione che determini anche una piattaforma programmatica adeguata ai tempi?
Non si possono tenere congressi in cui si fanno dettagliate analisi utilizzando schematismi ripetuti, giustificando il tutto con la ciclicità delle crisi del capitale e con quella ben più prolifica delle crisi politico-istituzionali che hanno, lo si voglia o no, ricadute ingenti sul terreno sociale.
Se la popolazione non domanda più da tempo una presenza della sinistra di alternativa in Parlamento, dovremmo chiederci da chi possono essere rappresentanti quei bisogni di un moderno mondo del lavoro e dell’inoccupazione che esistono a prescindere dal fatto che nelle Camere siedano o no deputati e senatori comunisti. Ci siamo interrogati per anni e anni su questa crisi verticale dei partiti: ci siamo detti che un po’ tutti erano effettivamente in crisi. Ma alcuni meno di altri. Ed altri ancora meno di questi altri.
Le alterne fortune di Lega, Cinquestelle, PD e Fratelli d’Italia (tralasciando il pietoso caso di Italia Viva, omen nomen…) sono l’emblema di un elettorato attivo che non sa individuare alla cosiddetta “sinistra del PD” nulla che possa mettersi in competizione con questi soggetti politici che rappresentano la conservazione nazionale, il liberismo più o meno sfrenato e il populismo ricondotto a più miti consigli dalle compatibilità istituzionali.
Ma una voce di alternativa a questo blocco che sostiene le ragioni del mercato, che non contempla minimamente una trasformazione sociale e un capovolgimento delle priorità del Paese dettate da Confindustria e dall’Unione europea bancario-monetaria, una voce che non sia isolata e singolare, minoritaria e acquiescente ad un minoritarismo indotto dalle circostanze e abbracciato stoccolmaniamente, una voce del genere non esiste.
Se è vero che la sinistra di alternativa è in crisi un po’ ovunque, è altrettanto vero che non si è fatto nessun tentativo – almeno in Italia – per superare gli anacronismi partitici di cui siamo parte e che sosteniamo pensando che abbiano davanti una nuova vita, un rinascimento culturale, politico e sociale: un nuovo protagonismo tra le masse e un ritorno fulgido in Parlamento. Tutto in prospettiva: perché la crisi dell’anticapitalismo e delle sinistre, a poco a poco che il tempo si dilata e cresce e ci si allontana da quel 2008 in cui venimmo espulsi dalle Camere, la percezione del dramma epocale si mitiga, ci si abitua all’idea che il proprio ruolo sia ormai questo a-parlamentarismo dai tratti messianici.
«Non impedir lo suo fatale andare: / Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare». La terzina rivolta a Minosse descrive molto bene un atteggiamento di passività attiva, di immobile attivismo: si sprecano tante energie per non muovere un passo nella direzione della riorganizzazione di una domanda di sinistra che non può sorgere spontanea da parte della popolazione, dei lavoratori. Manca una offerta politica degna di nota e di questo nome. Manca una proposta corale, collettiva, una costituente di lungo periodo che rimetta in discussione tutte le ottuse certezze che andiamo enunciando oggi.
Sopravvivono dei piccoli, autoreferenziali mondi di una sinistra di alternativa che si compiace di essere comunista, marxista, socialista, ecologista, libertaria e che si fa concorrenza nella dimostrazione della necessità di un cambiamento globale in cui l’Italia è ovviamente completamente immersa ma governata da un conglomerato di forze che, al massimo, sul piano della riforma sociale sono disposte ad affermare, dopo lo sciopero generale, che si deve riprendere il dialogo con il sindacato. Niente di più.
Tutto questo non può bastare alle lavoratrici e ai lavoratori, al tanto disagio sociale che viene egemonizzato da una anticultura delle fantasie di complotto che sono le migliori alleate di una omeostasi del sistema che, in questo modo, affronta la crisi pandemica senza troppe preoccupazioni sul rinvigorimento di una lotta di classe che esiste soltanto quando si rende visibile nelle battaglie operaie più eclatanti, come quella della GKN.
Dunque, ha fatto bene Maurizio Landini ad affermare il carattere nettamente politico dello sciopero generale: dovrebbe essere motivo di vergogna per la sinistra di alternativa. Per pochi istanti. Poi dovrebbe essere invece un motivo per riconsiderarsi, per abbandonare il mondo delle monadi e considerare la dialettica dei tempi come movimento incessante soprattutto dei rapporti economici e di produzione.
Ci sono giovani generazioni che non possono essere lasciate all’ombra del liberismo, mascherato da socialdemocrazia, populismo e sovranismo, fintamente alleato delle ragioni sociali immediate dei ceti più deboli. Tutta l’ingiustizia di questa quotidianità non può essere solo elaborata da fiumi di analisi e non tradotta in atti concreti, percettibili e tangibili.
A questi giovani (ed anche ai meno giovani) va data una nuova occasione rivoluzionaria nel vero senso del termine: che vuole, che reclama ed esige una trasformazione profonda dei rapporti economici attraverso solide basi culturali, quindi consapevolezza e coscienza; attraverso altrettante solide basi sociali, quindi traduzione di tutto questo nel proprio luogo di lavoro e da questo bel contesto di vita in cui ci si trova ogni giorno; e, infine, attraverso una riorganizzazione politica che dia vita ad un referente partitico che unisca il meglio della critica del passato col meglio della prospettiva per il futuro.
L’anticapitalismo e l’antiliberismo confinati tra gli stretti recinti che continuiamo a tenere in vita soffoca e si esaurisce inevitabilmente. Questo non è altro se non l’ennesimo disperato richiamo a fare qualcosa in merito. Nessuna altra pretesa, ma sia permesso almeno avere ancora fiducia nelle capacità critiche di tante donne e tanti uomini che hanno dato gran parte della loro vita per quel “sogno di una cosa” che, proprio quando è meno visibile, si finisce per sognare ancora più lucidamente.
MARCO SFERINI
17 dicembre 2021
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