L’ultima tentazione di Conte: riformare la Costituzione

In una lunga intervista a “La Stampa”, Giuseppe Conte si dice d’accordo con la proposta di Enrico Letta di aprire un tavolo di confronto tra le forze politiche –...

In una lunga intervista a “La Stampa”, Giuseppe Conte si dice d’accordo con la proposta di Enrico Letta di aprire un tavolo di confronto tra le forze politiche – unitamente ai capigruppo parlamentari – per evitare una sorta di “Vietnam politico” sulle tante misure contenute nella manovra di bilancio che andrà a stanziare la gran parte dei fondi del PNRR.

Anche se Draghi pare non l’abbia presa benissimo – pur non equivocando la totale buona fede (nel senso più religiosamente filo-governativo della parola) – ligio com’è al suo metodo che è fatto di cabina di regia nell’esecutivo e colloqui singoli con le forze politiche.

Tuttavia, Conte si spinge oltre e parla di riforme costituzionali da attuare in questa fase di condivisione “nazionale” delle problematiche del Paese: quando mai ricapiterà un’altra occasione con una maggioranza così ampia e con un arbitro così autorevole per i mercati, le borse e le congiunture economiche transnazionali, per poter mettere mano alla Carta del 1948 e rivedere il ruolo del governo, il peso del Parlamento e l’equipollenza dei poteri in seno alla Repubblica?

A leggere l’elenco delle proposte del M5S parrebbe persino di trovarsi davanti ad una razionalizzazione di certe norme che non sono più in grado di garantire, ad esempio, la stabilità dei governi che, a detta dell’ex Presidente del Consiglio, sarebbe principalmente imputabile ai giochetti di palazzo delle forze più esigue tanto delle maggioranze quanto delle minoranze.

Ed a tentarne una prima cogente interpretazione, sembrerebbe un riferirsi (e così, oggettivamente è, nonostante si possa negare o appellarsi al criterio di una ratio più generale della nuova ipotetica norma) al ruolo avuto da Italia Viva negli ultimi due esperimenti governativi guidati proprio da Conte: pars construens dalla maggioranza gialloverde a quella giallorossa e pars destruens da questa all’età saturniana del liberismo ben applicato da Mario Draghi.

Il dibattito sul ruolo delle “minoranze-minoranze“, quelle per cui un tempo si voleva riservare un pietosissimo “diritto di tribuna” in Parlamento – che già pareva un oltraggio alle fondamenta democratiche della composizione della volontà popolare nelle Camere – compare poco tempo dopo l’archiviazione del sistema elettorale proporzionale, in coincidenza con la trasformazione della politica italiana da politica di massa a politica completamente sulla massa.

Le cosiddette, tanto inflazionate “élite” hanno sempre avuto dei contatti privilegiati con singoli esponenti dei partiti e dei movimenti tanto di maggioranza quanto di minoranza. Ma, al tempo della impropriamente definita “prima repubblica”, esisteva una intermediazione che veniva esercitata proprio dalle masse popolari attraverso un voto che era pure altamente influenzabile ed etorodirigibile da lobby e associazioni criminali, ma che rappresentava proporzionalmente almeno il volere del tanto decantato e celebrato “popolo sovrano“.

Una sovranità apparente, per nulla sostanziale, ma non una mera formalità. La corrispondenza diretta tra numero assoluto di voti e percentuale dei seggi da attribuire nella Camere non solo rispettava il dettato costituzionale appieno nel rendere effettiva la volontà dei cittadini, ma obbligava le forze politiche a quello sforzo – prerogativa del Parlamento di costruire le maggioranze di governo (e indirettamente i governi stessi) partendo da un confronto che teneva necessariamente conto dei rapporti di forza esistenti e fotografati dal voto.

Con il referendum di Mariotto Segni e la fine della proporzionale, ogni successiva legge elettorale ha viziato ipso facto sia il ruolo di legislatore del Parlamento, che non rappresentava più veramente i rapporti numerici della volontà popolare, sia il metodo di autoriforma della Costituzione previsto nel testo stesso della Legge fondamentale della Repubblica.

Tutte i tentativi di modificare l’assetto istituzionale, puntando ad estensioni dei privilegi governativi, a ridimensionamenti dei poteri delle Camere, a subordinazioni del potere magistratuale agli altri poteri dello Stato, sono stati tentati (ed alcuni per fortuna – anzi, per decisione popolare – sono clamorosamente falliti) facendo leva sul carattere maggioritario delle maggioranze aprendo, proprio come fa oggi Giuseppe Conte, ad una condivisione delle responsabilità in tal senso con le minoranze e le opposizioni.

Da un lato, dunque, si ritiene (pure con qualche ragione, ma con un principio assolutizzabile) doveroso mettere in sicurezza il potere esecutivo proteggendolo dalle sfiducie costituzionalmente previste oggi istituendo lo strumento della “sfiducia costruttiva” che, se da un lato garantisce la continuità tra un governo e l’altro con cambi di maggioranza anche repentini, dall’altro può essere un incentivo alla storica piaga del trasformismo italico.

L’interesse del Paese, almeno sul terreno delle riforme istituzionali, resta concentrato in una schermatura delle debolezze governative, nell’intento di dare vita ad esecutivi che siano sempre meno dipendenti dalle funzioni sovrane del Parlamento che ha tutto il diritto invece di determinare l’esistenza o la fine di un governo se vengono meno coesione e unità di intenti entro i perimetri delle maggioranze nate (o che sarebbero dovute nascere) proprio dalla discussione nelle Camere.

Non c’è dubbio che Giuseppe Conte sia mosso da un anche sincero intento di riequilibrare delle storture e rimettere mano a tante imperfezioni che il regime repubblicano ha mostrato in questi decenni di tecnicismi più che di vera e propria politica.

Ma – si sa – è proprio la via dell’inferno che è lastricata di buone intenzioni: se questo Paese ha evitato delle torsioni autocratiche ed oligarchiche, è anche grazie ad un trasversalismo di posizioni che ha battuto nel corso delle legislature una serie di tentativi fatti per “presidenzializzare” lo Repubblica mentre si cercava di farne uno Stato di piccole patrie, di localismi regionalisti fondati su privilegi economici, sostenendo tante satrapie particolari.

Esistono molti modi per togliere al Parlamento la sua centralità e non è detto che tutte passino per un referendum che riduce il Senato a Camera di ratifica dei decreti governativi o per la riduzione del numero dei parlamentari, disgraziatamente approvata un anno e qualche mese fa or sono… Dietro anche la più nobile delle intenzioni, sommata ad altrettante, in una eterogenesi (a tratti ipocrita) dei fini si può nascondere un’altra idea di Repubblica Italiana che capovolga lo spirito della Carta. Lentamente. Senza troppa fretta. Ma inesorabilmente.

A pronunciare la parola “riforma” si fa presto, ma i danni che si possono causare sono come le scorie nucleari: il loro smaltimento è difficile, costoso e non basta una generazione per rimediare ai danni…

MARCO SFERINI

16 novembre 2021

foto: screenshot tv

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