E’ probabile che Fedez ci stia – come dicono i giovanissimi – “trollando” un po’ tutti con la trovata della registrazione del dominio “fedezelezioni2023.it“: forse la genialità incompresa da molti miscredenti sta proprio in questa provocazione detta e non detta, che rimbalza in un attimo in ogni dove della rete e di cui si parla persino ad “Otto e mezzo” su La7 con un ospite come Franco Bernabè.
La politica italiana pare una maionese impazzita: nello stesso giornale, nello stesso contenitore televisivo stanno gli annunci di Mattarella sul post-Matteralla stesso e Fedez con la prospettiva del voto politico tra due anni scarsi. In mezzo trovano posto i no-vax, i no-pass, i divieti della Lamorgese sulle manifestazioni, la crisi economica e quella ambientale con il fallimento del tutto manifesto del Cop26.
Ed allora viene da domandarsi se esista un filo logico che unisca tutto questo o se, molto più semplicemente, la mutevolezza degli eventi e la loro molteplicità è tale da mostrarci in tutto e per tutto gli effetti di una globalizzazione dell’informazione che, più ancora che con la nascita della radio prima, della tv poi e di Internet ancora più tardi, ha progressivamente esponenzializzato una tendenza cannibalistica, una voracità quotidiana di notizie che, anche se non sono tali, devono per forza divenirlo, così da gettare in pasto all’opinione pubblica quegli spettacoli da circo romano che merita.
Del tutto francamente: se Fedez deciderà di correre alle politiche del 2023 e candidarsi, sarà una legittima scelta. E’ un cittadino anche lui: che fattura non so bene quanti milioni di euro insieme alla moglie, che insieme a lei sa fare un sacco di cose legate al mondo internettiano, alla moda, alla musica, radunandosi attorno altrettanti milioni di followers che – come ha precisato Bernabè da Lilli Gruber – non è affatto detto che siano consensi elettorali certi. Anzi. Secondo qualche studio citato lì per lì in trasmissione, pare che solo l’1% dei seguaci di Instragram dia fiducia al suo beniamino se decide di scendere nell’agone elettorale.
Una percentuale forse anche sovrastimata, perché a parità di click e di conseguente “like” non corrisponde certo un piacere totale, una condivisione assoluta per tutto ciò che quel personaggio dice, pensa o rappresenta. Si segue una celebrità su Instragram come si seguiva un tempo la vita degli attori o degli uomini di spettacolo attraverso le pagine dei rotocalchi e dei giornali specializzati nel gossip. A volte con leggerezza, altre volte con maggiore interesse. Poche volte ci si identifica fanaticamente (per l’appunto da “fan“) con l’esistenza altrui, perché – in un certo qual modo – dobbiamo lasciare un po’ di spazio pure alla nostra.
Ripensando al tempo della impropriamente cosiddetta “prima repubblica“, scorrendo le immagini e le vite dei politici di allora, ebbene riesce difficile pensare che l’empatia di allora tra masse e leader possa somigliare anche lontanamente a quella di oggi: il carisma di Berlinguer, la presenza corporale di Craxi, la apparente bonomia dei capi democristiani erano, pure nelle loro oggettive differenze, la prima manifestazione di un rapporto diretto con le persone, con i cittadini, col pubblico persino televisivo. Senza altra protesi tra loro e gli altri, senza ulteriori intermediazioni lessicali, metamorfosi o adeguamenti al sentire comune.
Sarebbe stato impensabile assistere allora alla retorica renziana, alle felpe di Salvini o alla virulenza oratoria della Meloni. Persino Almirante adoperava toni pacati per affermare i concetti più giustizialisti, riecheggianti il ventennio mussoliniano attraverso le proposte di leggi speciali e pena di morte ogni volta che si parlava di attentati, terrorismi e inquietudini antisociali varie ed eventuali.
Nostalgia canaglia? Un poco. Perché allora si rifletteva prima di parlare, si criticavano i giornali, le TV e persino la scienza ma poco era lo spazio concesso ad una personale ed individualistica arroganza votata ad un nichilismo devastante, perché arrivava sempre il momento della sintesi collettiva, della decisione che impediva quel dibattito permanente che oggi pare necessario per essere giorno per giorno, ora per ora, un po’ tutte e tutti protagonisti dello spettacolo che insceniamo sui social e che, malauguratamente, riversiamo nelle piazze pretendendo di non avere mai torto. Anzi, pretendendo di conoscere proprio la verità per antonomasia, quella che è impossibile che esista, perché sarebbe solamente un banalissimo dogma.
Può darsi che Fedez, nato nei tempi modernissimi e cresciuto sull’onda di un successo amplificato da una comunicazione che ci ha frastornato nel suo cambiare così velocemente, un giorno diventi deputato o senatore della Repubblica. A ben vedere chi è transitato per Palazzo Madama e per Montecitorio in questi decenni, non sfigurerebbe nemmeno molto nella aule parlamentari e, sicuramente, ha una proprietà di linguaggio migliore di tanti sottosegretari, ministri e cortigiani al seguito che hanno avuto la mancanza di pudore di farsi ascoltare davanti a platee che hanno finito con l’applaudire l’ovvio fin troppe volte.
Può darsi, dunque. E caso mai lo scandalo sarebbe soltanto nel vuoto di una classe dirigente nazionale incapace di autorigenerarsi, di individuare qui migliori che dovrebbero recuperare il testimone e continuare a fare politica. Ma per passione. Invece, senza scadere nel populismo, la politica fatta per pura passione è rara quanto un Gronchi rosa, eppure preziosa, perché permette di distinguere ancora chi si getta nella mischia per i propri interessi, chi lo fa cercando una commistione tra pubblico e privato e chi, deriso e compianto, passa per l’ultimo dei romantici e dei sognatori se afferma che l’arte della politica dovrebbe essere quella più bella e difficile, affascinante e irriverente, corroborante per il singolo e utile alla comunità.
Imprenditori, attori, pornostar, giornalisti, calciatori, scrittori ed intellettuali, sindacalisti e operai, giovani studenti, sardine, scienziati e magistrati, avvocati e ricercatori, accademici e militari, civili e laici, credenti e atei, donne, uomini, transgender, non binari… Tutti hanno diritto di fare e di essere parte della politica del Paese. Lo stupore non può derivare dalla professione o dal corpo tatuato di un cantautore che vuole cimentarsi in prima persona nel “fare” politica. Letteralmente. Può darsi che Fedez intenda magari aprire un blog e dire la sua, come ha spesso fatto, su temi di scottante attualità, implementando così il suo impero massmediatico, aggiungendo un tassello di ulteriore interesse per i suoi fan e pure per i suoi detrattori.
Tutto può essere.
Ma c’è un punto che non andrebbe evitato, se si vuole mantenere intatta questa apertura di credito a chi non è un “politico di professione” (una locuzione che è sempre un’arma a doppio taglio per le interpretazioni stigmatizzanti che, naturalmente, genera): varrebbe la pena avere una idea. Magari una ideologia alle proprie spalle, per poter avere un programma tra le mani e una visione chiara delle differenze che intercorrono tra noi e gli altri, noi e il resto della politica. Quella differenza, quella alterità speciale che un tempo i comunisti avevano e che li caratterizzava per l’unicità che rappresentavano rispetto alla generale accettazione del mondo per come era, per come è ancora oggi.
Forse l’Italia ha bisogno di recuperare un po’ del proprio passato, unendolo a tutta la modernità del presente, proprio per evitare le trappole dell’eccessiva banalizzazione cannibalistica della comunicazione odierna senza perdersi nei rimpianti frustranti per quello che fu. Ma è comprensibile provare un certo sconforto: la prova del grande cambiamento dei tempi è anche nelle rispettive figure messe a confronto. Da Berlinguer a Fedez il salto è davvero da record olimpico. O nel nulla?
MARCO SFERINI
12 novembre 2021
foto: screenshot You Tube