Quegli undici colpi di pistola in una notte fredda e buia

Le armi non mi piacciono. Non mi sono mai piaciute, fin da bambino. Allora ero meno pingue rispetto all’oggi: un bel frugolone pacioccoso e, strano ma vero…, persino biondo....

Le armi non mi piacciono. Non mi sono mai piaciute, fin da bambino. Allora ero meno pingue rispetto all’oggi: un bel frugolone pacioccoso e, strano ma vero…, persino biondo. Un bel vedere, insomma, per chi amava il Tenerone di Drive In e voleva sbatuffolarmi un po’ con qualche ganassino sulle guance (sarebbero quei gesti con due dita che si fanno – forse si facevano… – per coccolare i piccoli, per sfrugolarli e farli sorridere). Così, quando era carnevale, io mi vestivo da tutto tranne che da soldato, armigero o difensore dell’umanità con un fucile o una pistola in mano.

A quel tempo non mi intrigavano nemmeno i film western e non parteggiavo per gli indiani, con cui mi sono schierato appena ottenuta l’età della s-ragione e dell’accumulazione di tante tristi verità su questa stramba e atroce umanità. Così, il massimo delle armi che ho impugnato, è stato uno stiletto alla Zorro e un improbabilissimo gladio da centurione romano. Tutto qui. Mai una Colt, mai un Ak47, mai bombe e nemmeno i più arcaici e rudimentali archi con le frecce.

La mia autobiografia armata finisce già qui, perché tra me e ogni oggetto che può fare del male fisico agli altri esiste una permanente idiosincrasia che, anno dopo anno, si è estesa ad un laicissimo e pacifico antimilitarismo, dai contorni ghandiani sul lato della protesta civile e ragionata, ferma e intransigente ma assolutamente non violenta.

Se obbedire è un mestiere, se uccidere è un mestiere, preferisco essere disoccupato. Ma non nella mente. La piena occupazione almeno la rivendico per il diritto di pensare, di riflettere, di lambiccarmi quanto più mi piace con tutti quei concetti che mi aiutano a sopravvivere in un mondo dove la prevaricazione tenta costantemente di fare il suo mestiere più antico: proporsi come regola del più forte contro il più debole, alterando un equilibrio naturale che ci mette davanti all’oggettività del mondo tutti, ma proprio tutti uguali.

Invece noi animali umani (perché siamo tutti animali, umani e non umani) siamo passati dall’utilizzo delle armi per la mera sopravvivenza primitiva all’uso calcolato, scientificamente studiato per offendere, per dominare, per procurarci qualcosa in più degli altri e garantirci quindi una maggiore possibilità di resistere alle tempeste dell’esistenza: sia quelle vere e proprie, meteorologicamente parlando, sia quelle che provenivano magari da lande lontane, quei fenomeni migratori che già migliaia di anni fa erano la causa di carestie, di insufficienze produttive di terreni sempre incolti, di avverse condizioni atmosferiche.

Alla ricerca di un posto in cui poter vivere decentemente, l’umanità si è spostata da continente a continente e ha provocato quegli straordinari scenari di rivolgimento e di mutamento che hanno segnato epoche, travolto imperi secolari e millenari.

Lo ha fatto con le armi, difendendosi e offendendo, celandosi dietro agli scudi e attaccando con macchine da guerra straordinarie per i tempi antichi. Da Siracusa alle steppe asiatiche, dall’Egitto faraonico alle truppe di Gengis Khan, dalle legioni romane alle armate di Temerlano, gli eserciti sono divenuti una presenza non trascurabile nei corsi e ricorsi storici: nessuno ha mai pensato di abolire le truppe armate, di poterne fare a meno, di vivere senza guardie, polizia e militari.

La storia delle lotte tra le classi sociali comprende necessariamente la presenza di una forza armata che, soltanto con la Rivoluzione francese, si dirà essere opportuna per garantire i diritti dell’uomo e del cittadino, cambiando – almeno internamente allo Stato – il concetto di controllo del territorio, di controllo della popolazione e persino di arruolamento.

Dunque, la storia delle armi è antica quanto l’essere umano e segue il suo progredire a volte, regredire altre volte. Dipende tutto dai rapporti di forza economici e sociali che sono alla base di quelli politici, quindi del governo di interi popoli le cui vicende si intersecano, si incontrano e si scontrano, si diversificano anche molto sempre in virtù del tipo di sviluppo di un paese, di uno Stato. La morale non influenza tutto questo, ma lo subisce e vi si conforma.

Possedere un arma è segno di indipendenza e di garanzia dei propri diritti negli Stati Uniti d’America, mentre per noi europei è una eccezione: la storia del lontano Ovest non ci appartiene. O forse sarebbe meglio dire che non ci apparteneva poi così tanto, perché, alimentata da una propaganda fascista e sovranista sul diritto all’autodifesa personale e della proprietà privata, si è fatta largo anche nel Vecchio Continente e nella nostra Italia una “ragionevolezza” sul possesso di armi anche se non si è membri delle forze dell’ordine, militari o cacciatori.

Difendersi dai ladri che tentano di rubare a casa propria è legittimo. Difendersi dai teppisti che ti assaltano il negozio e di feriscono, ti sparano, è legittimo. Quindi che un gioielliere sia armato è persino comprensibile, anche se, io fossi un venditore di gemme e orologi preziosi, non sarei per niente in grado di usare un’arma perché non la vorrei proprio. La morale individuale conta molto in questi casi e, tuttavia, il confine tra etica e legittimità è molto sottile, altrettanto interpretabile ed oggetto di dibattiti che continuano, continuano, continuano.

Di alcuni giorni fa è la notizia della morte di due giovani che, di ritorno da una partita sportiva, si erano fermati a parlare in auto davanti ad una villetta. Il proprietario si insospettisce. E’ notte fonda, che ci fa una macchina con due persone a bordo lì davanti alla sua proprietà? Vorranno rubare? Avendo subito il furto della sua automobile poco tempo prima, scatta forse una molla mentale, un riflesso pavloviano ad una autodifesa contro nessun pericolo. Proprio, ma proprio nessuno lo stava minacciando, né stava cercando di varcare la soglia del suo abitato.

Ma il sessantenne è inquieto, non riesce a tornare a dormire. Prende una pistola, non un fucile, nonostante sia un cacciatore. Una brava persona, diranno i vicini ai cronisti. Uno che si divertiva ad uccidere gli animali. Ma tant’è, una “persona irreprensibile” per i canoni consueti che classificano così il cittadino che si fa sostanzialmente i fatti suoi e non fa male a nessuno (tranne che agli animali non umani).

Dunque, prende la pistola ed esce in strada. Dalle ricostruzioni delle telecamere di sorveglianza viene fuori che ha preso la mira e non sparato in aria per avvertire quelli che lui pensava fossero dei ladri. Prende la mira e spara undici volte. Undici. I due ragazzi, forse spaventati dalle sue urla o, più probabilmente, dalla pistola puntata contro loro, cercano di andarsene, mettono in moto la macchina. Ma l’uomo non desiste. Spara, spara e spara ancora. Li crivella di colpi. Undici proiettili che stroncano due giovanissime vite. Due ragazzi che stavano solo parlando e che non stavano facendo nulla di male.

Poi l’uomo, che si è trasformato da cittadino irreprensibile in un vero e proprio assassino, in un killer, realizza che i due corpi sono immobili e chiama la polizia.

Le armi. Quando tu, politico sovranista, ti appelli continuamente al diritto alla difesa della tua persona, della tua famiglia e della tua casa, e lo fai invocando il diritto al possesso di un’arma, accade che si costruisce lentamente un vasto senso comune che istilla nelle persone un giustizialismo della notte dove la legge non ha alcun ruolo, dove la legittima difesa non c’entra niente e dove il diritto evapora come neve al sole.

Sarà un caso di schizofrenia paranoide, un caso estremo, un momento di lucida follia o di crepuscolarismo del pensiero, ma intanto basta il sospetto per far armare la mano di qualcuno che, evidentemente, è già predisposto all’uso delle armi e che considera la morte diversamente da come la considero io.

Siamo circondati dalle armi e le utilizziamo inflazionatamente nel nostro linguaggio: “fare una battaglia per…“, “trovare la pistola fumante…“, dire “spara” per sollecitare il disvelamento di una anticipazione, eccetera, eccetera, eccetera. Siamo circondati da notizie dove la violenza endemica nell’umanità è gestita dalle armi, dal commercio delle stesse, da guerre e sopraffazioni che non hanno una fine, che segnano ogni tempo, che non escono mai dal tempo presente per guardare ad un futuro imbelle e privo di offensività.

Noi viviamo ogni giorno intrisi di violenza anche quando pensiamo di essere i più pacifici cittadini della nostra comunità o del mondo intero. Siamo imbevuti di competizione costante, allenati a misurarci con il meglio piuttosto che con il giusto, con il più rispetto all’uguale, considerando il meno un segno di debolezza, di inferiorità e di squalificante esistenza, di indegnità.

Ma una alternativa alle armi, alla violenza, alla sopraffazione e alla prevaricazione esiste: non è il subire le ingiustizie, aprire le porte di casa propria ai ladri e offrire loro pasticcini e thè mentre di derubano allegramente. E’ lavorare socialmente e politicamente ad una nuova società dove il duplice omicidio di chi fredda con undici colpi due giovani ventenni solo perché ha pensato che fossero due ladri, sia considerato un abominio dei peggiori, e per questo sia vietata la vendita di qualunque arma a chiunque e sia abolita anche la caccia, come crudeltà sadica che vede negli animali non umani dei bersagli a cui tirare e non delle vite uguali alle nostre, invece da tutelare.

Chi applaude al gioielliere che ha freddato alle spalle i ladri che fuggivano con la refurtiva, sa di non fare un favore ad una cultura della legittima difesa, ma soltanto a quella che vuole far venire fuori dalle viscere di un ancestrale brutalità disumana che riecheggia in noi dalla notte dei tempi: quando ci vestivano di pelli e usavamo le liane per legare le pietre appuntite ai bastoni e cercare quel cibo che non era così elaborato come oggi.

Tutte le alternative che odiernamente abbiamo vanno sfruttate per evolvere, per superare incrostati pregiudizi e stereotipi che sono parte della narrazione di forze politiche che inneggiano alla forza, alla diseguaglianza civile, sociale e morale come elemento di superiorità dell’uomo sugli animali, dell’italiano sullo straniero, dell’intelligente sullo sciocco, del bianco sul nero, dell’eterosessuale sull’omosessuale, del credente sull’agnostico o sull’ateo, del proprio paese sugli altri paesi.

Le armi sono tante e non tutte materiali. Molte sono ideali, ideologiche e fanno altrettanto male quanto quegli undici colpi di pistola che hanno ucciso due ragazzi, all’una di notte, una notte fredda e buia, in una qualunque via di una qualsiasi città italiana. Perché, rebus sic stantibus, siamo tutti possibili obiettivi. Siamo tutti sotto tiro.

MARCO SFERINI

31 ottobre 2021

Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay

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