Il processo dialettico del presente è più un problema filosofico che antropologico: ci sono voluti più di duemila anni prima che con Marx si arrivasse ad una scientifica definizione dei meccanismi che regolano i rapporti tra le classi sociali, tra gli individui stessi e tra questi e la natura che li circonda e li include sulla superficie di Gaia.
I filosofi che interpretano il mondo, magari lo vorrebbero anche un po’ cambiare. Ma se ne trovano sempre meno in giro e si leggono sempre meno opere in cui si passi dallo stato contemplativo a quello dell’azione pratica, che traduca coerentemente in fatti concreti una elaborazione concettuale, anche una analisi descrittiva dei fenomeni che determinano quei mutamenti che sono inarrestabili e irreversibili.
Ma, del resto, chi mai vorrebbe arrestare il “progresso“? Nessuno, nemmeno noi comunisti che, a torto (tra i tanti torti che ci vengono accollati), siamo tinteggiati perniciosamente con i colori dei sognatori più disincantati e romantici, degli utopisti che rincorrono il mito rivoluzionario; mentre, allo stesso modo, veniamo disegnati come i peggiori conservatori che si possa incontrare: perché pensiamo che vadano tassati i ricchi, diminuite le ore di lavoro a parità di salario, convertiti molti settori privati strategici per il Paese in beni comuni e pubblici, costruite relazioni sociali che portino ad una compenetrazione delle culture, unificate le lotte singole in grandi rivendicazioni di massa, che vadano oltre lo stretto ambito nazionale.
Per fortuna il processo dialettico è inarrestabile e procede prescindendo dalle vittorie o dalle sconfitte che registriamo. E, siccome sono molte di più queste ultime, possiamo dire che, se un cambiamento sociale si registra in questo o in quel luogo di lavoro, di comunità, di scuola, è sempre più merito di uno spontaneismo disorganizzato che di una organizzazione politica che ha come obiettivo il superamento del sistema capitalistico.
Sono troppi i momenti del cambiamento che abbiamo vissuto solo da spettatori in questi ultimi decenni: il ruolo che ci siamo riservati era e rimane un ruolo importante, fondamentale anzi. Ma non siamo stati capaci di fronteggiare la potenza di fuoco di un capitalismo che ha utilizzato – come sempre, come era naturale che fosse – ogni sua risorsa disponibile per separare la critica sociale, la critica di classe e la lotta conseguente dalla classe stessa.
Per raggiungere questo obiettivo costante, renderlo immanente in una società che ha la tentazione di cercare la via della giustizia sociale, il pensiero unico del capitale ha addomesticato tanti intellettuali: giornalisti, filosofi, scrittori, semiologi e cultori del sapere in generale.
Ne ha fatto dei megafoni di sostenibilità di idee da suggerire, da infiltrare nei pensieri critici, nei dubbi e nelle rimostranze: li ha, a volte nell’incosapevolezza di una manipolazione che diventa sempre più manifesta per chi la osserva esternamente, inclusi in quello che oggi si preferisce chiamare “mainstream“, termine orrendo ma che fa tendenza (un mainstream nel e per il mainstream…) e che si potrebbe definire “corrente di pensiero dominante“. In pratica la tanto amata e odiata “opinione pubblica“.
E’ una modernissima mistificazione sia delle potenzialità delle nostre cellule grigie (per dirla alla Poirot), sia una eterogenesi dei fini che, divergendo da paese a paese per i rapporti di forza che intercorrono tra le classi, ritrova una sua compiuta unità nella manipolazione delle interpretazioni altre dalla buona “morale comune“, da quel “comune senso” che va oltre ogni pudore, che diventa indecente nell’essere ipocritamente antisociale, viscidamente seducente perché la sua offerta è in tutte le merci acquistabili, nelle proposte lusinghiere per lavori da fame, nelle promesse di un futuro felice mentre tutto intorno avanzano precarietà, eccedenze (im)produttive e si esponenzializza un neo-pauperismo per niente rassicurante anche se calmierato dalle belle risposte di Mario Draghi nel corso di lunghe conferenze stampa.
Il progresso, così, ancora una volta diviene una esclusiva non del socialismo e del comunismo, cui prontamente gli intellettualoidi italici (e non solo) mettono il marchio di infamia storica per milioni di morti causati dai regimi dittatoriali dell’Est europeo (se il confronto lo si fa nel peloso parallelismo con la ferocia nazista e fascista): il progresso diviene una esclusiva del sistema che lo nega, se, ovvio, si intende un progresso sociale, civile e morale.
I tre aspetti sono legati fra loro e non sono immaginabili separati nella lotta per l’emancipazione dal lavoro salariato, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla riduzione a servaggio di ogni essere vivente e di ogni eco-sistema. Nella “Miseria della filosofia“, scrive Marx: «Gli stessi uomini che stabiliscono le relazioni in base alla loro produttività materiale, producono insieme con essi anche i principi, le idee, le categorie adeguate ai loro rapporti sociali».
La critica a Proudhon qui si estende all’intero pianeta filosofico che resta separato dalla considerazione oggettiva dei rapporti di produzione come struttura fondante del pensiero stesso, non perché ne sia una derivazione immediata e quasi meccanicistica, ma perché gli esseri umani divenuti merce per la contropartita “salario – forza-lavoro” vengono inevitabilmente spinti a pensare insieme, a riflettere comunemente e, quindi, in questa comunanza di lavoro e di sfruttamento possono sviluppare una eguale critica che, da inefficace autocoscienza riflettente su sé stessa, ha tutte le potenzialità per diventare critica sociale e lotta conseguente.
Dietro ogni tentativo di egemonia culturale del capitale si nasconde, almeno in nuce, una capacità uguale e contraria di rovesciare le certezze del liberismo e dei suoi dettami, le sicumere imprenditoriali e i dettami della “ragionevolezza” e della “naturalità” delle cose.
Pensare che all’inconsistenza odierna della sinistra di alternativa, di classe e anticapitalista debba per forza corrispondere un atteggiamento esclusivamente passivo, una rassegnazione endemizzata, una inestinguibile adeguamento al corso dei tempi e all’andare degli eventi, vuol dire mostrare soltanto il proprio alto tasso di presunzione nell’osservare i movimenti sociali in atto. Non sono monadi impazzite e nemmeno stagnanti e separate le une dalle altre. Rischiano spesso di esserlo, nella lotta del povero contro il povero, del migrante contro il migrante, del lavoratore contro un altro lavoratore: ma, alla fine, ciò che conta sono i rapporti di forza generati da una economia i cui sviluppi sono sempre meno prevedibili.
La pandemia ha dimostrato tutto questo. Ci ha detto chiaramente che il capitalismo, che si crede e si vuol far credere l’ultimo stadio evolutivo dell’umanità e del pianeta intero, è cedevole al primo scossone naturale che lo travolge e che lo mette seriamente in difficoltà, quando anche non in ginocchio.
Purtroppo, fenomeni come quello pandemico sono molto democratici nell’essere anche classisti: si estendono a tutti e, simultaneamente, fanno pagare il loro scotto con una inversione di proporzionalità che corrisponde alla divisione delle ricchezze (sempre di più in mano a pochi) e alla spartizione delle povertà (sempre più ampia e globale).
Queste riflessioni, se possono essere di qualche utilità, non pretendono di arrivare a nessuna conclusione. Sono soltanto una traduzione scritta di ciò che si osserva, di ciò che diventa sempre più evidente a poco a poco che la pandemia si rarefà e si prospetta l’inquietante “ritorno alla normalità“.
MARCO SFERINI
24 ottobre 2021
foto: particolare di un disegno di Honoré Daumier