L’entusiasmo per la vittoria delle forze del centrosinistra alle appena passate elezioni amministrative si è trasformato, dopo le affermazioni di Letta, in una sorta di maldestro impeto rivoluzionario: quasi si fosse in presenza davvero di un mutamento sociale e politico di enorme rilevanza trasformatrice.
Niente di tutto questo. Per quanto si possa essere contenti che le destre siano state battute, i nodi sociali locali non saranno risolti da soggetti e partiti che, nonostante le coalizioni createsi di città in città, quasi a smentire che vi sia una “unità nazionale” trasversale a Palazzo Chigi e nella maggioranza parlamentare, restano fermamente ancorati ad una interpretazione liberale nel migliore dei casi, liberista nel peggiore in merito alla distribuzione delle risorse pubbliche e alla promozione del privato nei tanti ambiti di gestione delle comunità e dei territori.
Il momento politico è ricco di sconvolgimenti, non soltanto creati da questa fase ulteriore del biennio pandemico, ma frutto di una gestione governativa che ottiene i suoi risultati proprio sul piano economico-sociale.
La promessa di cambiamento affidata dalla grande stampa nazionale ad un rinascimento del centrosinistra, elogiata anche oggi dalle colonne de “La Stampa” da un Pierluigi Bersani che invoca il “campo progressista” come luogo di formazione di una federazione o confederazione di moderati e di partiti di sinistra, ha un suo respiro fino a quando non si devono fare i conti con le dure necessità dei rapporti bi e trilaterali dell’Italia con l’Europa e con organismi come l’OCSE che reclamano a gran voce una riforma, ad esempio, pensionistica che si preannuncia, così, tutt’altro che semplice, tutt’altro che indolore per i lavoratori e le lavoratrici.
Gli entusiasmi sono legittimi per chi crede che una politica riformista e di centrosinistra sia il meglio che può oggi esprimere il progressismo italiano, la stessa sinistra declinata in tanti, troppi aggettivi corrispondenti ai desiderata di chi vuole accaparrarsi dei voti sembrando ciò che non è più da tempo, e non facendo invece diretto riferimento ad una oggettiva concretizzazione di valori, ideali e aspettative delle classi più disagiate.
Ma poi, dagli entusiasmi dei giorni post-voto si deve per forza passare ad un bagno di realismo, contestualizzando delle vittorie che ridefiniscono la geopolitica italiana in un semestre bianco per la Presidenza della Repubblica, nell’incertezza sul futuro di Mario Draghi (se a Palazzo Chigi o al Colle), dentro l’onda lunga delle manifestazioni della minoranza rumorosa dei No Green pass, in mezzo al subbuglio che vive la parte conservatrice e sovranista della politica italiana dopo la tornata elettorale ma, soprattutto, dopo il logorio della vita moderna di un governo che deve portare avanti misure di compatibilità con le esigenze europee, non discostandosi troppo dai parametri del FMI, della Banca Mondiale e della già citata OCSE.
Il capitolo delle pensioni, a questo proposito, è la cartina di tornasole delle vere intenzioni del Presidente del Consiglio e dei suoi ministri: non vi erano dubbi che, scadendo “quota 100“, l’occasione sarebbe stata notevolmente ghiotta per rialzare l’età pensionabile e mantenere pressoché inalterati gli anni di contribuzione. Il tutto mettendo mano ad un rapporto tra lavoro e sistema pensionistico già alterato dalla “riforma Fornero” prima e dal patto leghista-pentastellato poi in favore delle imprese, sostenute – anche nella preannunciata manovra economica – da una defiscalizzazione del costo del lavoro invocata a gran voce dal padronato per far fronte alle chiusure ed alle restrizioni del Covid-19.
La vittoria del centrosinistra, dunque, non equivale ad un cambiamento di rotta del governo sul piano delle politiche sociali. Non ci si poteva che attendere queste misure economiche e antisociali da un esecutivo guidato dalle sentinelle del sistema bancario europeo ed internazionale. Nonostante Draghi invochi la condivisione dei valori politici, etici e morali di una Europa che non deve essere un contenitore finanziario che regoli le dinamiche dei singoli Stati, alla prova pratica di Palazzo Chigi si rivelano essere ben altri i fondamenti su cui deve poggiare la presunta – e per niente scontata – equipollenza di diritti tra i diversi appartenenti alla UE.
Per questo, l’appello di Bersani a compattare la sinistra entro una cornice dove stiano anche i moderati di centro, i liberali alla Calenda, sarebbe auspicabile se portasse alla ricostituzione di una delle due vecchie sinistre formatesi dopo il 1989: quella riformista e moderata da un lato e quella comunista e di alternativa dall’altro. Ma in quest’ultima sono forti le tentazioni di scavalcare ancora una volta il confine e schierarsi dalla parte del governismo, elemento imprescindibile connaturato nell’essenza del progressismo cosiddetto “a sinistra del PD“: a cominciare proprio da Articolo Uno che sta nella maggioranza di governo, che partecipa alle “Agorà democratiche” proprio in vista di una amalgama sempre più compatta e inscindibile con il nuovo corso di Enrico Letta.
Sinistra Italiana sta per il momento a guardare ma è abbastanza prevedibile che, nel momento in cui si dovesse affrontare il voto politico, si schiererebbe con il nuovo centrosinistra che, a questo punto, prevedendo l’asse PD-Cinquestelle, si proporrebbe come uno dei due poli di un rinascente bipolarismo sorto dalle ceneri del protagonismo pentastellato ridimensionato e reso ininfluente come forza politica a sé stante. La stagione della durezza e della purezza, dell’alterità a qualunque costo, per i grillini è trascorsa ormai da mesi: anzi, da ben prima della crisi del secondo governo Conte.
Ed alla sinistra della sinistra moderata, si contano le velleità di rifacimento di una società con cui si è smesso di essere in sintonia, da cui – al massimo – si traggono solo delle lezioni per portare avanti analisi e tesi congressuali prive di una aderenza sociale, di un riferimento concreto con i rapporti di forza esistenti.
Non può essere la disperazione a dettare la linea politica di un partito comunista e, tanto meno, la rassegnazione. Ciò vorrebbe dire affidarsi ad una disillusione permanente, privandosi di quella autonomia di giudizio e di comprensione della realtà che è necessaria per mantenere una lucidità politica che ci faccia avvicinare quanto più possibile all’oggettività del fallimento di questi anni: la ricomposizione della sinistra di alternativa fallisce ad ogni tornata elettorale perché punta tutto sull’immediatezza raffazzonata della costruzione di liste senza un anima comune da nord a sud del Paese.
Manca il Partito, manca la comunità sociale e politica di riferimento e manca una impostazione prima di tutto culturale e ideologica senza la quale ogni sforzo è limitato e limitante, frustrato e frustrante. Si finisce col sentirsi terribilmente soli in mezzo ad una apatia che non ha soluzione di continuità e si autoalimenta grazie ad una esasperante conformità al disastro dei tempi, alla marginalizzazione delle istanze di uguaglianza sociale, di rivendicazione di una giustizia altrettanto sociale che non è nei programmi del nuovo centrosinistra visto adesso come la chiave di volta della politica italiana.
Anche questa sconfitta delle destre, così intesa, finirà per essere un abbaglio, una parentesi soltanto tra l’esasperazione malpancista alimentata dai sovranisti e l’idea di una società migliorabile con quota 102 e quota 104, senza recuperare l’evasione fiscale, senza tagliare le spese militari, rimandando addirittura la tassa sulla plastica al 2023, con buona pace di Greta Thunberg e della tanto sbandierata “transizione ecologica“.
L’autunno antioperaio e liberista del governo Draghi è cominciato. Adesso serve uno sciopero generale per una proposta sociale che parta dal sindacato che è, oggettivamente, il corpo intermedio più vivo nella complessità dell’attuale fase politica: visto che dalla sinistra di governo è escluso che possa arrivare o che possa partire da una inesistente e impercettibile sinistra di opposizione e di alternativa.
MARCO SFERINI
21 ottobre 2021
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