C’è una “grosse koalition“, per lo meno della carta stampata e dell’informazione più prettamente politica, che non ha dubbi: l’eredità che la cancelliera Angela Merkel lascia da oggi alla Germania è quella della moderazione, della stabilità conservatrice come linea di governo di un paese che, dalla retrocessione economica del dopoguerra e dal confinamento nella dualità tra Est ed Ovest, è arrivato al primo posto nell’Europa passando per Adenauer, Khol e poi lei, “das Mädchen“: quella ragazza nata ad Amburgo, trasferitasi con la famiglia alle porte di Berlino, studente a Lipsia e portavoce dell’ultimo governo della DDR crollata assieme alle rovine del muro, ha ricostruito la politica tedesca su un impianto liberale prima e liberista poi.
Ha governato per sedici anni mantenendosi presente a sé stessa, proprio in un eterno ritorno di un oggi che evitava di guardare al passato, per la troppa sofferenza psico-politico-sociale che generava, e fingeva di non proiettarsi troppo in un futuro lontano da quel pragmatismo tradizionale del “zentrum” germanico che, ad essere storicamente e politicamente onesti, non ha sempre portato bene alla nazione di Arminio.
Lo schema della “grande coalizione“, da lei reinterpretato e riscritto per adattarlo compiutamente al corso dei tempi, è passato quasi indenne per lustri che invece hanno visto, in tanti grandi paesi europei, americani ed asiatici, cambi di maggioranze e di governi in una ridefinizione delle geopolitica che ha mutato pelle, che ha assistito all’avanzata asiatica, alla nascente potenza di un capitalismo di Stato cinese, una economia mista in un regime politico che pretende di definirsi “comunista” nel mentre, nel corso dei decenni, ha finito per tradire qualunque principio egualitario e sociale.
Angela Merkel ha evitato accuratamente di imitare vecchie politiche e non ha fatto nulla di rivoluzionario nel corso del suo cancellierato: nella storia della Germania è avvicinabile ai grandi che l’hanno fatta e rifatta, Bismarck e Kohl tra gli altri, esclusivamente per la lunga durata del suo governo. Il fallimento delle politiche liberiste, tuttavia, viene avvertito maggiormente in paesi come il nostro, dove la crisi economica, associata a quella pandemica, ha prodotto un livello di neo-pauperismo che è impossibile da recuperare pienamente senza un capovolgimento dell’impostazione riformistica di governo.
Nella Germania ricca, locomotiva d’Europa, le richieste per la creazione di un nuovo salario minimo orario sono ovviamente pari al tenore di vita: in Italia si ragiona su 9 euro all’ora, nel programma dei Verdi è scritto invece 12 euro. Che al centro della campagna elettorale tedesca, ad esempio, non vi sia la questione del lavoro, ma di più quella ecologica e della sostenibilità tra ambiente e sviluppo, è paradigmatico e ci dice che la cancelliera ha lavorato per tenere insieme una pace sociale che, paradossalmente, i suoi avversari della SPD non hanno inseguito.
Eppure la lunghezza temporale delle politiche liberiste di Merkel ha, alla fine, stancato i tedeschi che, stando ai sondaggi, nel 52% dei casi non la rimpiangeranno ma che, altro dato molto interessante, sono notevolmente più ansiogeni per quanto riguarda la formazione di un nuovo governo. La CDU ha rimontato in queste settimane e oggi il panorama politico della Germania somiglia, almeno nelle percentuali dei partiti che oltrepasseranno la soglia del 5% per accedere ai seggi del Bundestag, a quello italiano: cristiano democratici, SPD e Verdi sono abbarbicati intorno ad una forbice che oscilla dal 16 al 25 per cento.
Più distaccati i liberali, i neonazi-onalisti di Alternative für Deutschland e la Linke. Uno scenario complicato il “dopo-Merkel“, che rischia di consegnare al paese una risposta chiara in termini elettorali ma di fare i conti con una composizione di una maggioranza tutta da giocarsi tra tattica di brevissimo periodo e strategia di più ampio respiro, per non liquidare il conservatorismo istituzional-economico della cancelliera (tutt’altro che immobile, anzi energicamente dinamico nella giostra dei rapporti con BCE, Europa e stati nazionali), per mantenere il primato dell’ “uber alles” nel contesto continentale e nei rapporti internazionali.
Uno slogan della CDU nella prima parte della campagna elettorale tinteggiava Armin Laschet, candidato a succedere a Merkel, come la prosecuzione più che altro di un “buon lavoro” fatto in Renania del Nord e Westfalia, una regione ricca, produttiva, motore interno della Germania un po’ sempre. Poi è arrivata l’alluvione, con lei qualche gaffes di troppo, e la figura dell’uomo si è appannata, offuscata, senza però far avvantaggiare di tutto questo il principale rivale, quell’Olaf Scholz che nell’SPD rappresenta l’ala moderata, quella che da noi chiameremmo “la destra del partito“.
I Verdi hanno fatto un balzo in avanti notevole, indietreggiando nei sondaggi solo ultimamente e stabilizzandosi, comunque, ampiamente oltre il 15% ma non riuscendo a sottrarre altri consensi alla Die Linke (che viaggia sul 6%) per via del loro fiero filo-atlantismo. Apprezzabile rimane il resto del programma della formazione di Annalena Baerbok su salario, povertà, tassazione patrimoniale e diritti civili.
Il governo “ideale” per la Germania del dopo-Merkel sarebbe per noi l’ipotesi “rosso-viola-verde” (Die Linke, SPD e Verdi), mentre per banchieri, imprenditori, speculatori e finanzieri andrebbe bene la riproposizione della Grande coalizione tra CDU e SPD con i liberali della FDP a fare la parte dei difensori strenui del profitto e dei grandi patrimoni: non un terzo incomodo come potrebbero essere i Die Grünen, ma la stampella su cui far reggere una maggioranza coesa sulla visione liberal-liberista del futuro, con i piedi ben piantati nel presente.
La fine del dualismo bipolarista è prossima alla fine in Germania: dipenderà molto dai risultati delle grandi forze politiche che non si raffrontano più con una società aggrappata all’era di Angela Merkel, ma che guardano ad un compromesso – sempre per il bene economico della classe dominante, definito anche qui “bene del Paese” – tra interesse privato ed interesse ecologico, nel rapporto tra lavoro ed ambiente pur nella cornice capitalistica della compatibilità delle imprese, della stabilità dei loro fatturati e dell’aumento della concorrenzialità dei prodotti tedeschi nel resto del mondo.
L’onda lunga del conservatorismo liberista di Angela Merkel attraverserà ancora per molto la politica della Germania e scavalcherà la pandemia, influenzando sia la politica nazionale sia quella dei Länder: qualunque governo si formerà dopo il voto di oggi (e forse passeranno mesi prima che il Presidente Steinmeir individui il cancelliere da proporre al Bundestag) sarà consentito all’esecutivo muoversi entro le linee guida attuali e non deviarne molto: perché la ricetta funziona e tiene a bada tanto le forze sociali e sindacali quanto la moderna borghesia imprenditoriale.
Non scontentare nessuno del tutto: questa è stata l’epoca Merkel. Un pragmatismo asfissiante di cui, forse, i tedeschi oggi possono fare a meno, scegliendo di votare a sinistra, di votare pensando ad una Germania meno protagonista in Europa, sempre più ancorata alle lotte per i diritti sociali e civili, per uno sviluppo eguale, oltre la conservazione tanto della CDU quanto della SPD.
MARCO SFERINI
26 settembre 2021
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