Non c’è che dire: l’assemblea nazionale di Confindustria è stato, da alcuni mesi a questa parte, il momento di maggiori sviluppo dialettico tra le forze politiche, tra il governo e queste, tra il sindacato e il resto del mondo. L’asse Bonomi – Draghi, su cui nessuno aveva francamente alcun dubbio, ha lanciato il “patto” interclassista per una ristrutturazione antisociale di una Italia quasi nel post-pandemia e, tuttavia, pienamente immersa nelle problematiche di riadeguamento dei livelli di vita dei lavoratori salariati, di quelli indipendenti a partita IVA, dei tanti precari e del cosiddetto “lavoro povero“.
La “prospettica economica condivisa” citata da Draghi davanti alla platea degli imprenditori, altro non è se non la saldatura tra liberismo economico e liberismo politico nell’attuazione del cronoprogramma del PNRR, le cui tappe vanno armonizzate con una impostazione strutturale nuova nel rapporto tra aziende, sindacati e mondo del lavoro.
Siamo innanzi ad una fase costituente che il capitalismo italiano apre mentre l’emergenza sanitaria inizia a segnare il passo sotto l’aumento delle vaccinazioni, spinte dall’utilizzo del Green pass, mandando in iperventilazione il cuore della democrazia (formale), sacrificando il legame (sottile) tra popolazione ed istituzioni sull’altare del rilancio della “competitività” delle imprese.
Il giorno dopo l’ovazione a Draghi, Confindustria incassa la perfetta identità di vedute con il Presidente del Consiglio e continua ad augurarsi che dopo la scadenza naturale della legislatura sia proprio una maggioranza larga, tenuta sempre insieme dal federatore liberista, a guidare le riforme parlamentari, così da assicurare al padronato un periodo di certezze in quanto ad appoggio politico, a sponda governativa pienamente garantita dall’ex banchiere della BCE.
Nessuno potrebbe farlo, altrimenti: non Salvini, non la Meloni. Troppo divisivi nel Paese e in aperto contrasto tra loro stessi per l’egemonia nel settore di centrodestra. I problemi in casa Lega, poi, non permetterebbero agli industriali di affidarsi ad una coalizione conservatrice a trazione salviniana: qualcuno spera in Giorgetti, controfigura di un pragmatismo sovranista che vive mille contraddizioni e che, per poter avanzare deve, obtorto collo, impedire una qualunque scissione del Carroccio.
Nemmeno Letta offre al capitalismo italico delle garanzie di stabilità eguali a quelle dell’attuale “maggioranza di unità nazionale“: qualunque forma possa prendere il centrosinistra riesumato con l’alleanza tra PD e Cinquestelle, includerà sicuramente i bersaniani (peraltro quasi pronti a rientrare nel partito di origine) e forse anche Sinistra Italiana, pronti a tirare la giacchetta del futuro capo del governo dal lato sinistro, aiutando la coalizione a potersi dire “progressista”, fingendo una alternativa alle destre che rimane, sempre e soltanto, confinata al perimetro dei diritti civili.
Da questo punto di vista, la proposta dell’introduzione del “salario minimo“, inizia a divenire un nuovo cavallo di battaglia per un centrosinistra che prova a smarcarsi dalle destre e dal centro liberal-liberista proponendo una misura largamente condivisa nell’Europa tanto delle socialdemocrazie quanto dei governi ancora più moderati e accondiscendenti nei confronti delle direttive di Bruxelles e Francoforte.
Se fino a poche ore fa il “salario minimo” era uno spauracchio per il sindacato, dopo l’assemblea confindustriale, le aperture draghiane e l’approvazione piena di Letta, Conte e Landini alla festa della CGIL a Bologna, eccolo assurgere a discriminante costitutente, al pari del compattamento del fronte di classe imprenditoriale e finanziario, per la rifondazione dell’alleanza a sinistra, con un Fratoianni entusiasta, pronto a farne parte, sacrificando ancora una volta il rapporto con la sinistra di alternativa e proposte di classe che, certamente, sono difficili da realizzare nella spirale governista del neoriformismo servile, ma che non possono essere accantonate se si vuole davvero schierarsi contro l’offensiva liberista che unisce praticamente tutto l’arco parlamentare.
Davvero si può credere che Draghi abbia proposto il “salario minimo” come elemento fondante di un nuovo stato-sociale incluso nella trasversalità economica e politico-sindacale del “patto“? La filosofia ispiratrice di questa strategia strutturale è l’adeguamento di tutte le rivendicazioni sociali alle variabili del mercato e alle fluttuazioni borsistiche. Sono gli indici di sviluppo delle sole imprese i crismi cui si vincola la politica del governo nei prossimi mesi e almeno fino al 2023.
La crisi generata dalla pandemia ha sovvertito e rivoluzionato quelle che erano le certezze di una classe imprenditoriale che oggi ha la necessità di ripensarsi e di ricollocarsi nella complessità di una globalizzazione ridisegnata prima di tutto economicamente e, quindi, geopoliticamente. Mentre noi discutiamo di “green pass“, di vaccinazioni piene di 5G e di chissà cosa contengono i vaccini, mentre ci facciamo distrarre dalle “fantasie di complotto“, il capitalismo sta ricalibrando le proprie energie per sfruttare al meglio lo sviluppo ineguale, adeguandosi alla velocità esponenziale dello sviluppo di paesi che sono egemoni sul piano continentale: Cina, USA, Russia, India e la disomogenea Unione Europea.
La sinistra di alternativa deve ripensarsi, deve agire di conseguenza. Non si tratta di fare i rivoluzionari a parole, di scriverne tante, belle, di augurarsi che nasca una nuova coscienza sociale e di classe di massa che non esiste, che farà fatica ancora per molto tempo a rinascere e a interpretare nuovamente il rapporto tra capitale e lavoro.
Si tratta, invece, di avere chiaro ciò che si vuole, ciò che si persegue, senza tralasciare il raggiungimento di obiettivi quotidiani che non possono essere considerati secondari ma che nemmeno possono diventare l’unico scopo di una lotta politica (e sindacale): perché altrimenti si rischia uno strabismo che impedisce di avanzare, di camminare nella direzione del cambiamento sociale, concedendosi alla maggioranza liberista che permette una agibilità rivendicativa che stia entro la compatibilità del sistema, le necessità dell’impresa pubblicamente propagandata come “interesse nazionale” e privatamente difesa come interesse del tutto padronale.
Il tempo della “quasi post-pandemia” va osservato con grande attenzione se si vuole riprendere a costruire una risposta adeguata del mondo del lavoro a quello della grande industria e della grande finanza. Condividere le presunte riforme draghiane, plaudite da Confindustria, e disporsi ad alleanze di governo sulla scia della saldatura dei liberismi economici e politici del Bel Paese, non sono certo i modi migliori per offrire una alternativa vera, concreta, netta e riconoscibile a quella grande massa di moderni sfruttati che, in gran parte, continua a pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili e che ha perso qualunque speranza perché non ha più fiducia nella rappresentanza istituzionale, nella Repubblica, nella imperfetta ma necessaria nostra democrazia.
MARCO SFERINI
25 settembre 2021
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