Poche ore prima del grande corteo degli operai della GKN in quel di Firenze, proprio a Campi Bisenzio un altro operaio muore sul lavoro, schiacciato tra i rulli dei macchinari della fabbrica.
Quel grande fiume umano fatto di oltre 25.000 operai, sindacalisti, studenti, comunisti e da chiunque senta propria la lotta di classe, è dedicato a tutti i morti sul lavoro, ed è la più impattante, colorata e rumorosa protesta che si sia vista da mesi a questa parte per opporsi a politiche padronali che liquidano la vita dei lavoratori come si faceva un tempo e come, del resto, si è sempre fatto anche in questi anni in cui qualcuno ha tentato di favoleggiare sulla fine dello scontro tra capitalisti e moderni proletari.
E’ una grande dimostrazione di alimentazione della democrazia: dai luoghi di lavoro a quelli della vita quotidiana che sta fuori dalle fabbriche e che, sovente, è impermeabile ai problemi di un mondo operaio (ma non solo) così destrutturato e scomposto in tanti lustri di privatizzazioni e avanzamento delle prepotenze liberiste. Il protagonismo dei lavoratori è un livello superiore di democrazia rispetto a quello che ogni giorno, con una buona dose di frustrazione, viviamo nel rapporto con la mera rappresentanza politica istituzionale.
Spesso si fa riferimento ad una preparazione di una nuova connessione tra i corpi intermedi sindacali e i partiti, e tra questi e la enorme massa popolare vista in chiave utilitaristica nel dialogo tra elettori ed eletti, tra elettori ed aspiranti sindaci, consiglieri comunali, regionali, deputati e senatori. Questa è essenzialmente una retorica endemica di un sistema politico accondiscendente a quelle politiche continentali che impongono la visione liberista, la variabile della competitività delle sole imprese in un contesto sociale che, invece, è ben più ampio, articolato e complicato nel suo evolversi, soprattutto in tempi di pandemia.
La manifestazione fiorentina degli operai della GKN interroga, a questo punto, tutta la sinistra di alternativa: lasciamo perdere il PD, irriformabile, irrimediabile e irreprensibile nel (per)seguire coerentemente un viatico liberal-liberista che guarda a sinistra solo quando sono in discussione i diritti civili, completamente slegati da quelli sociali. Ma la sinistra di alternativa, libertaria, comunista e genericamente anticapitalista, deve ascoltare i messaggi degli operai toscani e di tutta Italia.
Sono rivendicazioni che provengono da diversi centri produttivi del Paese e che a Firenze hanno trovato un comune denominatore attorno all’imperativo categorico di classe: “INSORIGIAMO“, scritto tutto maiuscolo, per farne sentire l’urlo prorompente, per esprimere a tutto tondo quella rabbia non più reprimibile che è sentimento classista, che è orgoglio operaio ma che, soprattutto, è lotta unitaria contro la prepotenza padronale.
La sinistra si è benevolmente illusa di ritrovare sé stessa con l’autocoscienza dei giorni di Genova nel 2001. Ha pensato di aver riscoperto una tensione unitaria che ricomponesse il mondo delle monadi in cui si era particolarizzata per troppo tempo dopo la fine dei grandi settori di pensiero e di pratica di quel pensiero stesso, dopo il 1989 e negli anni immediatamente seguenti.
Invece quella ripresa dei movimenti di lotta, studenteschi, altermondialisti e operai, notata da molti studiosi alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo millennio, che avrebbe avuto nella spinta globalizzatrice del mercato un motivo sufficiente per ridare vita ad un rinnovamento comunista e anticapitalista, si è arenata davanti alla diga liberista del successivo decennio che, potendo osservare meglio gli effetti lasciati sul campo dai ferali anni ’90, completava un ciclo di lotte esauritesi per la mancanza di una “Internazionale” che fosse l’esatto contrapposto di quella rappresentata dalle grandi organizzazioni del capitale. Fra tutte la Banca Mondiale e il famigerato FMI.
Gli organismi fondati a Bretton Woods hanno diretto le crisi dell’economia di mercato puntando su una geopolitica dell’espansione globale non solo affidata più esclusivamente all’interpretazione statunitense, ma evitando accuramente di frapporsi tra i blocchi che si stavano creando, tra Asia e Americhe, tra Americhe ed una Europa francamente molto meno energica in sviluppo e in potenza imperialista rispetto a USA, Russia e Cina.
I grandi scioperi generali francesi del 1995, che tutti ricorderanno per la loro durata, per quella straordinaria ostinazione a non fermarsi e a paralizzare veramente una grande nazione democratica, erano diretti contro quella impetuosa avanzata privatizzatrice che portava con sé il paradigma del benessere assoluto legato esclusivamente al controllo totale del privato rispetto alla gestione pubblica, ad una contemplazione del bene comune come benessere comunitario, sociale e collettivo.
Proprio “Le Monde“, non certo un giornale di sinistra e tanto meno comunista, definì quella mobilitazione nazionale “la prima ribellione contro la globalizzazione“. Del resto, il fenomeno della moderna estensione totale sul pianeta della circolazione di qualunque merce, quindi della possibilità da parte di ogni azienda multinazionale di guadagnare mercati che prima le erano preclusi dalla divisione in blocchi della Guerra fredda, era agli esordi dopo il riflusso degli anni della contestazione e della proposta politica socialdemocratica innervata nell’impianto elefantiaco di un partito che nominalmente era ancora comunista ma che, praticamente, stava cercando una via d’uscita da sé stesso per offrire al Paese una soluzione di sinistra che permettesse l’accesso al governo e alla “governabilità” come nuova forma di lotta (se così si può dire…).
Fino all’inizio degli anni 2000, poco prima del G8 di Genova e dell’altermondialismo accampatosi nella Superba per violare simbolicamente la “zona rossa” dei potenti della Terra, i lavoratori e le lavoratrici, i precari, i disoccupati e tanta parte del movimento studentesco avevano creato sempre più occasioni di scontro con le rappresentanze istituzionali ed economiche del capitale: le grandi manifestazioni che si tennero a Seattle contro la WTO (l’Organizzazione mondiale del commercio) e poi in Canada, e poi replicarono anche in Europa, erano riuscite nell’intendo di frenare l’impeto mondiale alla corsa alle liberalizzazioni.
Questa enorme rivolta di massa contro le più grandi centrali a guardia della stabilità del capitalismo mondiale non fu un fuoco di paglia, bensì riprese tutte le tematiche e le rivendicazioni dei decenni precedenti attualizzandole e facendone nuove parole d’ordine per la moderna rivolta sociale contro il pensiero unico che vinceva, tuttavia, nel mostrare le meravigliose sorti e progressive del mercato mediante gli sviluppi tecnologici accessibili su vasta scala un po’ da tutte le classi sociali e mediante l’accelerazione di un protagonismo individualista che con i social network avrebbe dato un colpo quasi mortale alla coesione nel nome dell’uguaglianza, dell’unità per l’avanzamento dei diritti dei lavoratori.
L’individualismo esasperato di questi anni, giocato anche in gran parte per via telematica, ha scisso la collettività e ci ha riportato a quello stato monadiale che è il migliore interprete del modello americano del “self made man“. Opportunità ed opportunismo hanno finito per essere declinate esclusivamente al singolare, consegnando le prime ad un rapporto di stretta parentela con il secondo e impedendo a qualunque altra visione alternativa della società di farsi largo tra le masse popolari, tra i milioni di lavoratori che nessuno più osava chiamare “classe lavoratrice“.
Manifestazioni come quella degli operai della GKN aiutano a sperare che una voglia di riscossa sia possibile, anche se occorre avere ben presente che questa non ha la fisionomia politica della rivoluzione, del desiderio di un capovolgimento a centottanta gradi del sistema, ma tuttavia rappresenta in questo momento la punta più avanzata di un progressismo italiano mortificato dal centrosinistra, utilizzato come bigliettino da visita elettorale e troppo poco praticato da un anticapitalismo settorializzato in personalismi e autoreferenzialità (anche ideologiche) che impediscono una analisi sincera, onesta, schietta e impietosa del cul-de-sac in cui siamo finiti e in cui rimaniamo.
Cogliamo il messaggio e l’avvertimento che ci viene dagli operai, dai lavoratori che hanno marciato in corteo a Firenze. Per farlo dobbiamo diventare tutte e tutti un po’ più umili, incontrarci, parlare e discutere sapendo che nessuno oggi ha una soluzione ai problemi del lavoro, del sindacato e della sinistra vera. E se nessuno ha una ricetta vincente e una soluzione ai problemi sociali dell’oggi, si può almeno mettersi all’opera per ragionarne unendo “il sogno di una cosa” marxiano ad un altrettanto necessario marxiano pragmatismo.
MARCO SFERINI
19 settembre 2021
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