Nell’impazzimento generale di informazioni, normative proposte, approvate, respinte o mai arrivate in discussione nelle aule parlamentari, e soprattutto nel bel mezzo della sclerotizzazione dei discorsi e delle opinioni, alterati dalla massmedializzazione e dal circuito perverso dell’edonismo tutto social, proviamo a prendere un punto di riferimento. Un punto fermo da cui partire con qualche certezza, con qualche sicurezza. Se non altro, di principio.
Il punto di principio è l’articolo 32 della nostra Costituzione. Riportiamolo per intero:
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
La distinzione fatta dai Padri Costituenti, laddove si separano, e al contempo si fanno interagire, il singolo individuo (il cittadino) e la collettività (il popolo), non è di lana caprina. In tante parti della Carta, che laddove non circonstanzia lascia la delega alle specificazione normativa al Parlamento e all’adeguamento dei princìpi generali calati nella stretta attualità della vita nazionale e locale del Paese, determinate enunciazioni possono apparire generaliste e generalizzanti. Forse anche retoriche e banali. Ma è proprio l’esatto opposto.
Al primo capoverso dell’articolo appena citato, si dice che la Repubblica tutela la salute. Separata dal contesto e dalle successive specificazioni, questa affermazione può apparire banale e scontata. Eppure, se si osservano tutti i tentativi fatti anche in questi ultimi tempi per fare della salute una merce di scambio tutta privata, finanziata magari pure con soldi pubblici, si comprenderà come questa affermazione rimane una pietra miliare sulla via del mantenimento di un diritto che viene definito proprio di ogni singolo “individuo“.
Si va oltre la cittadinanza, l’appartenenza nazionale. Persino si oltrepassa il dettato dell’articolo 2, affermandolo pienamente, ma ribadendo che vi sono diritti inalienabili che non possono essere trascurati per nessun motivo. Uno di questi è la tutela della salute di ciascuno e, quindi, nell'”interesse” sociale anche della “collettività“.
Si parla molto in questi giorni di “costituzionalità” del “green pass“, riferendosi alle ipotesi sulla sua formulazione e, successivamente, sulla sua applicazione. Un permesso scritto (o telematico) che consenta di poter avere dei diritti in più rispetto ad altri cittadini, è un tema non semplice da definire e da sviscerare in tutte le sue conseguenze possibili.
Partendo dalla Costituzione, piuttosto che dai laceranti dibattiti televisivi e dalla confusione di informazioni che si incontrano e si scontrano sul web, forse si può riuscire a trovare una sorta di manualetto che permetta la codificazione di linee guida in merito all’applicazione di una norma generale che deve per forza essere ponderata dalle Camere. Il ricorso ad un DPCM sarebbe deleterio e, questo sì, risulterebbe incostituzionale, perché spetta solo al Parlamento l’interpretazione della Costituzione; mentre spetta solo alla Corte Costituzionale l’interpretazione data dal Parlamento ai dettami della Carta nel legiferare.
Se la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo, è anche vero che questo principio laicamente sacrosanto non può essere separato dall’altro asse portante dell’articolo 32: la collettività. Cicerone, poco meno di duemila anni fa, lo dice chiaramente: «Salus populi suprema lex esto». La frase è stata rimodulata nei secoli, per diventare e il concetto di “salute” è stato affiancato a “rei publicae” o semplicemente all’aggettivo “publica“. Laddove per “salute pubblica” si rimanda ad un concetto più giacobino – se così vogliamo dire – includendo la salvezza della nazione, dello Stato, del Paese e, quindi, di conseguenza di tutto il popolo.
Singolo e collettivo vanno a braccetto sempre: perché non vi può essere piena libertà del primo senza una vera e piena libertà di tutta la società. Siccome la Costituzione è semplicemente una elencazione di norme che definiscono la vita della e nella Repubblica, nell’esistenza di ciascuno di noi, ogni giorno, accadono tanti e tali eventi ed imprevisti che, anche solamente pensare di poterli normare tutti sarebbe, oltre che liberticida, anche immorale.
Dobbiamo saper conservare, come cittadini, uno spazio di agibilità a prescindere dalle leggi ma non al di fuori di esse quando regolamentano il bene comune, includendo per questo il nostro. La ribellione contro la legge è giusta – brechtianamente parlando – quando è ingiusta, quando è vessatoria, quando limita l’espressione mentale, fisica, morale e civile di una persona, di un essere vivente di qualunque specie. Ma se la legge assolve al compito per cui è destinata, allora – in quanto strumento, mezzo propositivo e di diritto positivo – può andare nella direzione di semplificare la vita di ognuno di noi e permetterci di limitare le ingiustizie, i disagi e ciò che ne deriva.
Il tema del “green pass” rimane al centro della discussione che ha come fulcro il concetto della “discriminazione” tra i cittadini: per ottenerlo si dovrà essere vaccinati e non si potrà semplicemente portare la mascherina, igienizzarsi le mani e tenere la debita distanza per evitare di infettare e di infettarsi. Sarebbe anche abbastanza facile cavarsela, rispetto alla cocciutaggine dei detrattori, affermando che non vi sono pericoli in tal senso se si segue l’articolo 32 della Costituzione. Sappiamo, però, che a buona norma non corrisponde sempre un buon esercizio di governo. Spesso accade il contrario.
Sono paradossi della politica, della società economica diseguale in cui viviamo, ma sono evidenze cui non è possibile far finta di niente. Per questo, il rischio che si finisca per attribuire ad alcuni cittadini diritti che altri non possono avere, è concreto. In questo caso si potrebbe addirittura parlare di “privilegi”, se la possibilità di essere vaccinati non fosse universale e se non si potesse ottemperare alla correlazione (obbligatoria a quel punto) tra vaccino e “green pass“.
Il governo ha l’onere di mettere tutti i cittadini nella condizione della libertà di scelta, proprio garantendo loro l’accesso alla vaccinazione senza più alcuna distinzione di sorta: solo in quel momento il diritto rimane tale e perde le sembianze del “privilegio” che l’eterogeneo mondo dei no-vax vorrebbe attribuire al possedimento di un lasciapassare necessario, che non preannuncia nessuna dittatura e che non è paragonabile a nessun altro evento infausto del passato, in nessun tempo, in nessuna dittatura patita dall’Italia.
Chi sceglie di non vaccinarsi deve poterlo fare in assoluta libertà, sapendo che questa scelta pregiudica indubbiamente il raggiungimento più repentino di quella “immunità di gregge” di cui tanto si parla; che quindi non contribuisce al rapporto di equilibrio tra salute del singolo e salute della collettività e che, pertanto, il corrispettivo è la limitazione di libertà del tutto secondarie: andare al ristorante, in discoteca, ai concerti, nei teatri, alle mostre, ecc.
Diverso il problema degli spostamenti pubblici: se un lavoratore rifiuta di vaccinarsi e, per raggiungere il posto di lavoro, deve usare un mezzo pubblico, andrà costruita attorno a questa (frequentissima) eventualità una norma ad acta per garantire la salute pubblica in ogni modo. Che non sia semplice legiferare a questo proposito, è fuori di dubbio. Ma la preservazione della democrazia esige che si lavori con ancora più meticolosità proprio laddove sembra impossibile una soluzione condivisa per tutte e per tutti.
A questo proposito, i guai per i lavoratori che non vogliono vaccinarsi non finiscono certo appena scendono dalla metropolitana o dal treno… Confindustria propone, sostanzialmente, la sospensione dal posto di lavoro e dallo stipendio per chi non si immunizza dal Covid-19. E’ una aberrazione, una prepotenza tipica di chi pensa di poter fare a meno dei rapporti con le parti sociali, dialogando magari solo col governo per la rinegoziazione delle normative sulla salute nei posti di lavoro.
Purtroppo non è una provocazione. I padroni la definiscono una “ipotesi allo studio“. Già così è irricevibile, se dovesse anche soltanto essere presa in considerazione dal governo Draghi (e la cosa poi non stupirebbe molto…), questo sì lederebbe diritti fondamentali di ogni cittadino: perché i lavoratori sono prima di tutto persone con diritti fondamentali che non sono negoziabili. Nemmeno in tempo di pandemia e nemmeno se si rifiutano di farsi vaccinare. Il diritto al lavoro non può essere pregiudicato dal diritto a rifiutare una cura o un trattamento preventivo di una malattia.
Nell’interesse proprio e collettivo, tuttavia, sarebbe bene che ci si adoperasse per snellire sempre più il numero di coloro che sono refrattari ai vaccini. Meglio con la persuasione e la convinzione, evitando il ricorso necessario alla coercizione.
Non bisognerebbe mai dare l’alibi al potere di esercitare il massimo della sua costrizione, col minimo sforzo possibile, in una condizione di emergenza in cui, proprio tutti noi, possiamo invece essere la coscienza civile della Repubblica. Essere noi stessi i garanti della nostra salute e libertà. Essere noi, per primi, la Repubblica.
MARCO SFERINI
21 luglio 2021
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