l loro servizio a favore della pura razza ariana comincia nel 1939 con T4, l’«operazione eutanasia», per la soppressione di malati di mente o incurabili, Christian Wirth direttore. Poi gestiscono lager in Polonia: Sobibor, Treblinka, Bełżec, Majdanec, il triestino/sloveno Odilo Globočnik, comandante delle SS e della polizia di Lublino, coordina le operazioni dell’Aktion Reinhardt, la «soluzione finale».
Nessuno di loro, dopo la distruzione dei campi polacchi, rimane disoccupato: l’8 settembre 1943 il territorio dell’alto Adriatico viene occupato dalle truppe del Reich e si può trasferire lì tanta esperienza. Globocnik diventa comandante delle SS a Trieste. Con lui Wirth, Hering, Allers, Stangl, Stadie, Franz, il gotha dello sterminio.
Trieste è stata austro-ungarica: annessa al Reich sarà di nuovo ricca e ordinata. Va stroncata però la decennale opposizione di slavi e antifascisti. E vanno sterminati gli ebrei, ovviamente. In città operano già gruppi ben collaudati contro slavi e antifascisti: l’Ispettorato speciale di Pubblica Sicurezza è abituato a seviziare selvaggiamente e, dopo l’8 settembre, passa agli ordini della Gestapo; la sua lunga mano è la squadra di ladri e assassini del commissario Gaetano Collotti.
Nell’ottobre 1943 un grande stabilimento per la raffinazione del riso viene trasformato in prigione e deposito di beni razziati in Istria e nel Carso. È perfetto, con i binari ferroviari e uno sbocco al mare: si costruiscono celle e si amplia il vecchio forno con l’altissima ciminiera.
Il forno crematorio comincia a funzionare in gennaio, anche se nella tradizione locale il suo collaudo viene datato 4 aprile 1944 per far sparire i corpi di 71 ostaggi fucilati il giorno prima. Funziona spesso, soprattutto il venerdì, sempre di notte. Si vedono arrivare camion pieni di cadaveri. Ma si uccide anche in loco: rare fucilazioni, molto gas, sgozzamenti, colpi di mazza. Abbaiano i cani, urlano gli altoparlanti, rombano i motori: i caporioni tedeschi sovrintendono, la manovalanza ucraina esegue, i collaborazionisti locali sorridono al guadagno.
La Risiera funziona a pieno regime per 18 mesi, inusuale campo di detenzione con forno crematorio.
A migliaia, per la maggior parte ebrei ma anche antifascisti, vi transitano per finire in Germania. Più di settecento ebrei triestini e i molti rastrellati in Veneto, in Friuli, in Istria, in Dalmazia riempiono i 74 convogli che partono da Trieste. Gli ebrei triestini che rientreranno vivi sono venti.
Almano quattromila persone finiscono nel forno crematorio ma quanti e chi siano i morti in Risiera non si saprà mai. Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, prima di scappare, le SS fanno esplodere alcuni edifici riducendo in macerie anche il forno crematorio.
Pochi resti vengono trovati subito: cenere e resti carbonizzati di ossa umane, vestiti ancora insanguinati che in parte permettono il riconoscimento di alcune vittime. Di questo dà notizia un giornale locale ma poi nessuno ne parla più, nemmeno delle quattro casse di ossa combuste ritrovate nel 1946 o dell’ossario rinvenuto in fondo al mare.
Cala il silenzio sulla Risiera. Nel primo dopoguerra a Trieste è in atto un feroce scontro ideologico, sociale e nazionale, l’amministrazione anglo-americana non è propensa ad alimentare animosità ancora bollenti. I pochi fascisti portati a processo si appellano e tutto viene mandato inopinatamente a Roma: l’amnistia di Togliatti libera tutti. Con il ritorno dell’Italia nel 1954, il vero nemico deve essere la Jugoslavia e basta. Di contro, per slavi e comunisti, la Risiera diventa un simbolo della propria storia, incondivisibile. Sulla Risiera, ancora una volta e più di altre, la storia della città si spezza in due.
Intanto, in Europa, si continua a fare i conti con il passato: nel 1967 la magistratura tedesca si rivolge all’Anpi per avere informazioni sul Polizeihaftlager di Trieste e così tocca aprire un’istruttoria anche in Italia. Il cammino è stentato.
Il pubblico ministero militare di Padova rivendica l’applicazione del codice di procedura militare di guerra: vuol dire un elenco di reati già estinti per amnistia speciale. Conflitto di competenza e ricorso alla Cassazione che riconosce la giurisdizione triestina ma solo per i reati di natura ordinaria: sei un antifascista dichiarato? Un partigiano con tanto di divisa? La tua morte è un fatto di guerra, la competenza non è del giudice ordinario.
Nel 1976 si apre dunque a Trieste un processo monco, limitato a pochi casi decontestualizzati. La stampa italiana è presente ma fuorviata da quella esiguità fattuale, i potenziali imputati sono deceduti o «non esattamente identificati«e il clima è tutt’altro che antifascista.
L’aula è piena, la gabbia per gli imputati vuota. Si processano solo gli ufficiali nazisti ancora vivi esclusivamente per gli omicidi commessi per «futili motivi», non c’entra niente il massacro di partigiani. Tanto, documentazione non ce n’è: di tutti i lager in Europa solo per la Risiera è sparito tutto. Quarantacinque anni fa la sentenza, il 29 aprile 1976: ergastolo per il contumace Joseph Oberhauser, SS-Obersturmführer e comandante della Risiera. Punto.
«Su quei muri e sugli ipotizzati nomi scritti su quei muri era stata poi data, in tranquilli tempi di pace, una mano di calce. Dopo la guerra, viene la pace, che ha pure il bianco colore del sepolcro e dei sepolcri imbiancati nel cuore», così Claudio Magris in “Non luogo a procedere”.
MARINELLA SALVI
foto tratta da il manifesto.it