Il 27 maggio era stato in piazza a Roma con i lavoratori in lotta dello stabilimento Whirpool di Napoli. Fino alla fine della sua vita dalla stessa parte, Guglielmo Epifani, nato a Roma nel 1950 da genitori campani e morto ieri nella sua città per l’improvviso peggioramento di disturbi cardio-respiratori di cui soffriva da tempo.
Elegante «per quello che era», come l’ha ricordato l’amico Bersani, colto, mai in cerca della ribalta, quasi un alieno nella politica dei tweet, serissimo e determinato, è stato il primo in tante cose: primo segretario non comunista della Cgil quando nel 2002 da socialista fu eletto successore di Sergio Cofferati (di cui era stato vice), pochi mesi dopo la piazza oceanica del Circo Massimo per difendere l’articolo 18 di cui fu il principale organizzatore; primo (e unico) ex sindacalista a guidare il Pd nel 2013, dopo il doppio trauma dei 101 e delle dimissioni di Bersani.
La sua carriera da dirigente sindacale parte subito dopo la laurea in Filosofia (con una tesi su Anna Kuliscioff) da una categoria particolare, i poligrafici e cartai, di cui nel 1979 diventa segretario generale aggiunto dopo aver guidato con successo la casa editrice della confederazione, l’Esi.
Arriva alla guida della Cgil all’inizio del secondo governo Berlusconi. Al primo incontro a palazzo Chigi, il Cavaliere che aveva patito molto la Cgil del rosso Cofferati, gli si fece incontro sorridente: «Carissimo, finalmente tra socialisti ci intenderemo!». E lui: «Sì ma io sono interista». Un modo garbato e ironico, nel suo stile, per far capire che la musica non sarebbe cambiata.
E così fu col governo delle destre: la barra dritta di Epifani sulle pensioni e sul welfare provocò la rottura con Cisl e Uil. E nel 2003 sterzò a sinistra schierando la Cgil per il sì al referendum di Rifondazione per estendere l’articolo 18. Anche a Prodi (che lo ricorda come «persona di alto livello intellettuale») non fece sconti: nel 2007 durante una riunione con le parti sociali si alzò, disse che non era d’accordo e se andò. L’adesione all’accordo arrivò il giorno dopo con una lettera.
Fu fra i più lucidi a leggere le cause e poi a proporre soluzioni per uscire dalla crisi del 2008: dal palco di piazza San Giovanni nel 2009 utilizzò la parola «patrimoniale», chiedendo inascoltato una «tassazione dei grandi patrimoni per non far pagare la crisi solo ai lavoratori».
Nella Cgil dei suoi ultimi anni da segretario generale stava già montando “il problema Fiom”. Gli allievi di Claudio Sabattini – Gianni Rinaldini prima, Maurizio Landini dopo – intrapresero il cammino dell’autonomia come opposizione sociale che lui, riformista, considerava «un errore marchiano». La sfida di Marchionne al contratto nazionale e al sindacato movimentò il rapporto tra la Cgil e i suoi metalmeccanici. La piazza Fiom del 2010 chiese lo sciopero generale, Epifani dovette accettarlo: «Faremo anche quello, ma è un’arma, non l’unica, che va usata con intelligenza perché è un grande sacrificio».
Fu una sua idea anche un’ altra “prima”, la scelta di una donna, Susanna Camusso, per succedergli nel 2010. Quando l’anno prima la scelse come vice fu una decisione forte, che col tempo convinse anche chi in Cgil si era mostrato tiepido.
Nel 2013 inizia la sua seconda vita, quella politica, con l’elezione a deputato del Pd, capolista in Campania, terra a cui è sempre rimasto legato. Anche se già nel 2000 D’Alema gli aveva proposto di guidare l’organizzazione dei Ds.
Passano pochi mesi dal debutto a Montecitorio e arriva la prova politica più difficile: a maggio l’assemblea lo elegge alla guida del Pd dove resta fino alle primarie dell’8 dicembre vinte da Renzi. Sono mesi di tensioni fortissime, con il debutto del governo Letta, l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza dopo la condanna, l’assalto al partito del rottamatore che voleva il congresso subito, terremotava il governo e lo sfidava a colpi di tweet: #gugliemodacciladata.
Lui, fedele all’impostazione di Bersani e al governo Letta, gestì quei mesi con un equilibrio da acrobata: tenne in segreteria i bersaniani insieme a Luca Lotti, impedì l’implosione del Pd durante il congresso più duro. Negli anni del renzismo non fece mancare le sue critiche, mai sopra le righe, anche nei mesi dolorosi del Jobs Act.
Nel 2017 la mossa inattesa: è lui che all’assemblea dell’Hotel Parco dei principi annuncia la scissione a nome della minoranza, spiegando che le politiche di Renzi su scuola e lavoro avevano allontanato milioni di elettori. «Prendiamo atto che il segretario intende tirare dritto», le sue parole. Poi la militanza in Articolo 1, la rielezione alla Camera nel 2018, gli ultimi anni a cercare nuove strade per una riconnessione tra sinistra e mondo del lavoro.
Ieri l’hanno salutato in tanti, anche molti esponenti della destra hanno ricordato il suo essere «uomo di dialogo e ideali veri, dalla schiena dritta e dalla testa alta» (Roberto Calderoli). Sergio Mattarella si dice «profondamente addolorato». «Il suo impegno ha recato un contributo alla storia del movimento sindacale italiano e della Cgil in particolare, dove ha avuto modo di esprimere la propria visione riformista e le proprie qualità di dirigente impegnato, sempre attento agli interessi dei lavoratori. In Parlamento ha recato la sua grande esperienza e un bagaglio di cultura che mai indulgeva al settarismo».
«La sua vita è stata un esempio di partecipazione democratica e impegno sociale, sempre al servizio dei lavoratori e dei più deboli», il ricordo di Mario Draghi.
La notizia della scomparsa è arrivata proprio mentre il Pd incontrava i sindacati, riunione che è stata interrotta in segno di cordoglio. «Ha dato la vita alla Cgil e al sindacato», ha detto Maurizio Landini. «Il suo impegno, la sua esperienza rimarranno per sempre come esempio di cosa vuol dire essere un dirigente del sindacato». «Onoreremo la sua memoria. Il lavoro al centro del suo e del nostro impegno», le parole di Enrico Letta.
«Sempre al merito del problema senza mai una sfumatura di demagogia», il ricordo commosso di Bersani. «Nella fiera dei riformismi un riformista vero». Sergio Cofferati ricorda l’amico: «Era una persona dolce e nel contempo assai determinato nell’affrontare anche le situazioni più difficili. Ci mancherà molto».
ANDREA CARUGATI
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