Che Italia sarebbe stata se avesse vinto la monarchia, se i Savoia fossero rimasti sul loro trono per altri 75 anni, dopo aver tradito i più fondamentali princìpi di uno Statuto liberale come quello albertino, dopo aver aperto le porte al fascismo senza firmare il decreto di Facta per porre Roma in stato di difesa nei confronti della marcia dei criminali fascisti, dopo essersi seduti accanto ad Hitler nelle parate militari e aver firmato nel 1938 le infami leggi razziali di Mussolini e, ultimo ma non ultimo, dopo aver cercato di salvare pelle e corona saldandosi con Grandi e Ciano per poi favorire l’ascesa di Badoglio al governo del Paese tagliato in due dalle rispettive occupazioni militari tedesca e alleata?
Già, che Italia sarebbe stata? Con un certo sguardo cinico rivolto tanto alla storia quanto al presente, qualcuno potrebbe dire che, in fondo, non sarebbe stata tanto diversa da come è oggi: al posto di Mattarella ci sarebbe Emanuele Filiberto, che non avrebbe potuto probabilmente partecipare a spettacoli televisivi – sdoganato e introdotto nell’ambiente della notorietà catodica da quel Fabio Fazio che viene ammirato così tanto come emblema del progressismo di centrosinistra e del bon ton comunicativo – e intorno una schiera di nobiluomini e nobildonne. Il Quirinale sarebbe ancora l’antica reggia passata di mano dai papi ai re d’Italia, i carabinieri non sarebbero semplicemente “Carabinieri“, bensì aggettivati come “reali” e così l’esercito, la marina, l’aviazione e tutto il resto dell’armamentario bellico che si esibisce nelle parate del 2 giugno sconfitte dal pseudo-pacifico Covid-19.
Ma questa sarebbe stata oggi l’Italia dei Savoia in un 2021 superficiale, apparente, visibile in tanti giornali gossipari, spettegolata in tv e su Internet: un sovrastrato di una società ben più complessa che si è provata a rendere più giusta ed egualitaria con la Costituzione del 1948 e che, tra tante luci e altrettante ombre, ha vissuto – nonostante tutto – 75 anni mantenendo un equilibrio democratico più formale che sostanziale e, tuttavia, essenziale per portare avanti una serie di rivendicazioni sociali e civili indispensabili per la continua lotta in senso progressivo piuttosto che un ritorno ad anche solo velate tentazioni autoritarie.
C’è chi si rifiuta di festeggiare la nascita della nostra Repubblica perché legato a sani, ottimi valori e princìpi anarchici: una punta di invidia sorge, perché è abbastanza facile liberarsi dal fardello militareggiante e incivile del patriottismo declinato all’ombra delle bandiere di guerra, delle fregate, delle portaerei, delle mostrine e dei gradi, delle medaglie ricevute per avere contribuito a violare l’articolo 11 della Costituzione in merito al solo scopo difensivo delle nostre forze armate. Ma è più complicato non voler bene, non provare empatia per la Repubblica che è espressione naturale della volontà popolare, che è “pubblica” per antonomasia e che quindi – a differenza della monarchia – si affida benevolmente al ricambio amministrativo, alla turnazione delle opinioni dentro le sue istituzioni.
Separarsi da questo laicismo democratico che protende, almeno idelamente, verso un disegno sociale egualitario e che dovrebbe interpretare ogni aspetto della vita comune e singolare di ciascuno di noi entro un contesto di reciprocità, valorizzando ogni differenza e facendo delle peculiarità delle eccellenze prima di tutto civili e poi anche sociali, ecco provare a separarsi da tutto ciò, ad assumere un atteggiamento così tanto critico da ripudiare la Repubblica è molto difficile. Anzi, è impossibile per un comunista.
Perché i comunisti questa Repubblica l’hanno pensata da sempre, fin da prima dell’avvento del fascismo: diversamente da come la intendevano i repubblicani liberali eredi di Giuseppe Mazzini ed altrettanto diversamente da come la pensavano i popolari di don Sturzo e Alcide De Gasperi. Marx ed Engels prima, Lenin e Rosa Luxemburg poi, tutti vedono nel passaggio dalle monarchie alle repubbliche un punto imprescindibile per sostenere meglio le ragioni del proletariato e farle poggiare anche sulla lotta parlamentare. Ma non solo. La lotta di classe viene svuotata del suo potenziale e minimizzata se pensata esclusivamente attraverso il riformismo istituzionale.
Tuttavia non sfugge a nessun rivoluzionario dell’800 e anche del ‘900 che la repubblica è un passaggio chiave verso il socialismo perché ha in sé i fondamenti dell’egualitarismo: borghese, formale, non sostanziale. Tutto quello che si vuole. Ma, mentre la monarchia perpetua la concezione piramidale, che va oltre le classi sociali e stabilisce la differenza di ceto come elemento fondante di una società “naturalmente” diseguale, dove esistono persone con privilegi assicurati dalla formula “per grazia di dio e volontà della nazione“, la repubblica nasce dalla spinta propulsiva data dal carburante dell’esigenza dell’uguaglianza. Sociale, civile, civica e morale.
Nel 1957, quando si tengono i primi consessi continentali per i “Trattati di Roma“, preambolo della futura Comunità Economica Europea, genitrice dell’attuale liberistissima UE, c’è chi quella Repubblica Italiana non la vede così di buon occhio e vorrebbe persino escluderla dal nuovo consesso che si sta creando. Il motivo sta proprio nel carattere sociale che la nuova Italia post-bellica si è data: troppe limitazioni ai diritti della proprietà privata, chiosano oltre il confine delle Alpi. Merito dei comunisti e dei socialisti se è andata così. Merito di un lavoro di incontro tra grandi ideali diversi fra loro, di un sincretismo di culture che ha portato al compromesso costituzionale.
Se la monarchia fosse sopravvissuta a sé stessa, avrebbe forse avuto un ruolo meramente rappresentativo: se non altro per emendarsi nel tempo dalla commistione col fascismo, dalla condivisione di tante delle scelte fatte da Mussolini nel corso del ventennio omicida, discriminatorio, repressivo, totalitario e criminale del partito littorio.
A ben vedere, molte delle monarchie ancora esistenti si fermano nel loro portato disegualitario proprio sulla soglia della formalità, di divise, lustri, mostrine e fasce di vario colore indossate nelle occasioni ufficiali: oltre quello c’è l’azione di governo che, già nell’Inghilterra repubblicana di Cromwell e poi in quella ritornata alla corona dopo la sua morte e la debole reggenza di suo figlio Richard, risiede anzitutto nel parlamento e, di conseguenza, nel governo che esegue la volontà del popolo espressa attraverso u suoi rappresentanti eletti.
Si tratta ormai di monarchie repubblicane, di ibridi che strabicamente guardano con un occhio al passato delle tradizioni incancellabili, alle favole delle belle carrozze e delle sontuose cerimonie con un protocollo ampolloso, e con un altro occhio al presente e al futuro: re, regine, imperatori stanno nelle favole e quando si trovano a vivere ancora nella realtà di oggi, sanno che sono poco più di un presidente eletto da una assemblea che racchiude la vera sovranità. Quella popolare.
Non ci inganniamo a lungo, però. Così come esistono monarchie dalle sembianze repubblicane, per involuzioni evolute del presente, sempre più assente a sé stesso, possono altrettanto esistere repubbliche che finiscono per somigliare preoccupantemente a monarchie: semipresidenzialismi, presidenzialismi esasperati o anche solamente presidenti che modificano di volta in volta la costituzione per perpetuarsi. Autocrati, nuova zar, cesarismi e bonapartismi di ogni tipologia conosciuta: non è stato scevro il grande Novecento, non ne rimarrà imperturbato nemmeno il Duemila.
Ciò di cui possiamo essere certi, studiando a fondo la storia del nostro Paese e osservandone da vicino i passaggi più disagevoli per le classi lavoratrici e per tutti gli sfruttati, è che non si può cercare nella Repubblica la soluzione di ogni contraddizione strutturale: il capitalismo condiziona la vita sociale e politica, culturale ed etica di ognuno di noi. Una forma di Stato, del resto, non ha vita propria, ma esiste solo se lo vogliono le persone, i cittadini ed è tanto più aderente alla propria ispirazione primariamente egualitaria quanto le lotte sociali si formano, crescono e si riproducono attraverso una sempre più alta consapevolezza delle motivazioni dello sfruttamento del lavoro, dei tentativi delle classi dominanti di piegare agli interessi privati ogni ambito pubblico.
La Repubblica non è la panacea di tutti i mali, ma è un punto di partenza per assimilare quella conquista di civiltà che è la negazione della superiorità di alcuni esseri umani su altri per ragioni che prevengono addirittura il diritto di successione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la stessa proprietà privata particolare e particolareggiata. Un re esiste soltanto se esistono dei sudditi. Ed il capitalismo continuerà ad esistere se sarà considerato “normale” che i padroni “diano il lavoro“, che abbiano delle fabbriche e possano fare profitti utilizzando la mente e la forza delle braccia altrui.
L’indignazione morale è parte di una coscienza critica più ampia che deve rovesciare i rapporti di forza esistenti, pensando alla miseria in cui si vive e in cui si può precipitare, mentre loro, gli imprenditori, tutto sommato se la cavano sempre. Almeno quelli che hanno centinaia di operai che possono sostituire con altrettanti disoccupati in attesa di essere ricattati a dovere, nella perfetta e coerente logica che regola i rapporti di produzione.
Se avesse vinto la monarchia, in quel lontano 2 giugno 1946, forse oggi faremmo ugualmente questi discorsi e ci saremmo emancipati dal pensare che una certa cerchia di persone ha diritto di sedere su un trono, di farsi chiamare duca, conte, contessa, marchese o chissà che altro e di differenziarsi dal resto del popolo in quanto “nobile“. Ma la Repubblica, uscendo dai paragoni e dalle ipotesi, dai favoleggiamenti della storia e dell’attualità, ci ha aiutato ad andare molto oltre, nonostante sia stata vilipesa – al pari della sua e della nostra Costituzione – tante, troppe volte.
La Repubblica è l’Italia più bella che abbiamo conosciuto dal 1861 ad oggi: è quel ritorno ai valori di un Risorgimento che guardava alle classi popolari e che dismetteva una volta per tutte l’incrostazione della differenza di ceto, lasciando insoluto il problema della divergenza di classe. Ogni volta che si parla della Repubblica Italiana, si dovrebbe fare riferimento al quella Romana del 1849. Il vero 2 giugno ha origine da quella disperata lotta contro monarchie, nobili, clericali e profittatori di ogni tipo che nel rovesciamento del potere temporale dei papi avevano ravvisato il pericolo della nascita di una Italia che virasse verso il socialismo, verso quella democrazia ancora tanto estranea all’Europa ottocentesca.
Ma la Repubblica è anche l’Italia più controversa e problematica che abbiamo conosciuto, perché non riesce a coniugare le istanze sociali con le pretese dell’economia capitalista e dei suoi corifei. Per questo è infantilismo politico (o antipolitico) pensarla come contenitore esclusivamente delle tante zone d’ombra che l’hanno attraversata. Senza la Costituzione, quindi senza la Repubblica, non avremmo avuto la possibilità di rendere dinamiche, importanti per crescita civile e morale della popolazione, tante lotte sociali.
Festeggiare oggi la Repubblica vuol dire non dimenticare quanto ancora troppa poca repubblica vi sia nella nostra società, piena di differenze marcate, di ingiustizie legalizzate e di pregiudizi regolarizzati da una morale comune che obbedisce agli istinti più retrivi, alimentati da forze politiche neofasciste che si paludano con sinonimi e con atteggiamenti fintamente democratici. Ma restano quell’immondizia che sono sempre stati.
Se la monarchia fosse sopravvissuata a sé stessa oggi per questi movimenti e partiti sovranisti vi sarebbe un alleato in più. Formale, almeno. Non scordiamoci che alcuni di questi sono oggi al governo del Paese e non c’è un re al Quirinale. Ma c’è un liberista estremo al governo. Cos’è peggio, dunque? Un re che regna ma non governa o un capo di governo che obbedisce ciecamente ai mercati e al grande capitale?
Ognuno si risponda come può… Buon 2 giugno, intanto.
MARCO SFERINI
2 giugno 2021
foto tratta da Wikipedia