Si muore di lavoro perché si vive nel capitalismo

Nello scorso febbraio fu Jaballah Sabri, pure lui ventiduenne, a rimanere vittima di un macchinario per la filatura. Sempre in quel di Prato. Pochi giorni fa è toccato a...

Nello scorso febbraio fu Jaballah Sabri, pure lui ventiduenne, a rimanere vittima di un macchinario per la filatura. Sempre in quel di Prato. Pochi giorni fa è toccato a Luana D’Orazio e dall’inizio del 2021 – ci dicono i dati dell’INAIL – sono già 185 i morti sul lavoro. Non c’è giorno in cui si possa dirsi certi che tutti coloro che sono andati in fabbrica o in un cantiere torneranno a casa. Agli imprenditori questo non accade: almeno non a quelli che fanno parte dei vertici del capitalismo italiano e che sbraitano per avere la fetta più grande del Recovery fund.

Una visione miope, e per questo pressapochista, potrebbe attribuire la maggior parte delle morti sui luoghi di lavoro ad errori umani, che pure vi sono e che comunque non sono una colpa, visto che a rimetterci è sempre il salariato. Un’altra visione altrettanto miope, semplificatoria e molto riduttiva, potrebbe affermare che in fondo certe cose possono accadere, che sono casi eccezionali (praticamente quotidiani!) e che anche le macchine più sofisticate, che dovrebbero evitare di stritolare nei loro rulli gli operai grazie a cellule fotoelettriche di segnalazione del pericolo con autobloccaggio immediato, possono sbagliare.

Sarebbe un problema di costi e benefici, di cui si sente tanto parlare in epoca pandemica a riguardo delle somministrazioni di certi vaccini cui si possono ascrivere determinati eventi infausti, molto rari eppure ormai accertati. La tentazione di trasformare un problema sociale in una mera operazione aritmetica è forte, perché nell’insieme dei milioni di occupati, 185 morti in tre mesi sono, sembrano, devono sembrare pochi. Devono poter essere etichettati come quelle rare eccezioni di trombosi venosa cerebrale che agitano tanto i media, che suggeriscono campagne di sostegno a questo vaccino continentale piuttosto che a quello anglo-svedese o americano.

Ma la strage giornaliera dei morti sul lavoro non è nemmeno paragonabile ai 32 casi di trombosi su 40 milioni di vaccinati: magari la sicurezza nelle fabbriche e nei cantieri fosse anche lontanamente paragonabile a quella garantita da vaccini che pure sono tutt’ora in una fase di sperimentazione di massa, su intere popolazioni.

Contentarsi di risposte come l’errore umano o il disguido tecnico è alibizzare un paniere di responsabilità pesante come un macigno: c’è tutto un indotto sociale, politico ed economico che deve riconoscere le proprie colpe nella formulazione di questo contesto tanto di vita esterna al luogo di lavoro quanto di vita e morte di fabbrica, di cantiere, di qualunque luogo dove si presti la propria forza e la propria intelligenza ad un’altra persona per averne in cambio un salario spesso insufficiente, un vacatio in materia di diritti fondamentali a tutela tanto della salute fisica quanto di quella mentale delle lavoratrici e dei lavoratori.

Nello specifico del singolo caso è del tutto evidente che le circostanze appaiono contare di più di ogni altra valutazione globale. Ma la strage dei morti nei luoghi di lavoro non è casuale, è strutturale, riguarda il sistema di produzione delle merci così come lo conosciamo e lo sopportiamo. Riguarda un capitalismo che, se non può eviscerare da sé una delle tante contraddizioni costituenti la sua struttura ancestrale, deve essere obbligato a ridurne gli effeti negativi alla massima potenza.

Nonostante i progressi nella meccanizzazione e nella digitalizzazione dei processi produttivi, il pericolo che una lavoratrice o un lavoratore ad una catena di montaggio, ad un telaio meccanico, adibiti ad operazioni meccaniche riprodotte chissà quante volte nel giro di un minuto (figuriamoci in otto e più ore di lavoro…), possano incappare in un “incidente” rimane estremamente alto e le percentuali di questa eventualità, se confrontate con il solo 2020, sono aumentate ben dell’11,4% per quanto concerne i primi mesi del corrente anno.

Se prima della pandemia i padroni rispondevano alle obiezioni su adeguati investimenti nella sicurezza dei loro dipendenti affermando che questi rispondevano alla legislazione vigente e che altre distrazioni di capitali erano impossibili in quel senso se non si voleva uscire dalla competizione internazionale sui mercati, nel biennio pandemico il leitmotiv assume connotazioni uguali e contrarie: la “buona volontà” non manca, ma stavolta è l’emergenza sanitaria a dettare l’agenda del capitale.

Non è mai colpa di chi possiede le fabbriche e i cantieri, tutt’al più è colpa della politica, latamente e genericamente intesa: non si sa bene di quale governo, non si sa di quale maggioranza o ente. Nel corso dei decenni passati non sono mancati gli aiuti di Stato ad una imprenditoria che ha evitato il “rischio di impresa” grazie ai soldi pubblici in tante, tantissime occasioni. Eppure, nonostante ciò, quando i profitti tornano ad aumentare, quando i dividendi hanno sempre più zeri, i capitali vanno all’estero, vengono messi in sicurezza dalla voracità del fisco bolscevico italiano, mentre ai lavoratori restano precarietà, insicurezza hic et nunc e in prospettiva di un futuro che non permette di programmare una vita singola e tanto meno familiare.

Le garanzie e i diritti che vengono riconosciuti non sono nemmeno uguali per tutta la forza-lavoro: la discriminazione femminile è un altro dato eclatante di una falsa modernità imprenditoriale, così come altre differenze che sono il tratto distintivo di minoranze cui le leggi dello Stato riconoscono – con grande lentezza evolutiva – sempre maggiori spazi di vivibilità piena dell’esistenza (sic!) dimenticando di coniugarle e correlarle con il diritto del lavoro.

Le prospettive nell’immediato futuro sono tutt’altro che rosee, su molteplici intersecati piani che contribuiscono a determinare una visione complessa ma complessiva della sicurezza del e sul lavoro: l’approssimarsi della scadenza del blocco dei licenziamenti, il superamento tanto della Fornero in vista della scadenza di Quota 100 e il piano di distribuzione delle risorse europee. Non c’è tema che sia proponibile come singolare, isolabile dal contesto sociale, politico ed economico del Paese e anche dell’Europa.

Se si vuole veramente mettere mano al problema della strage sui luoghi di lavoro, si deve avere il coraggio di tutelare i lavoratori guardando loro non come pezzi di un meccanismo produttivo ma vite con lo stesso (se non maggior) valore di quelle di chi “fa impresa” e rischia solamente dal punto di vista finanziario. La fondatezza della nostra Repubblica sul lavoro è e rimane un principio astratto per governi come quello di Draghi, ma non di meno anche per i precedenti, visto che la Costituzione cui fanno riferimento è quella in cui loro scrivono con un antipatico inchiostro classista: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul libero mercato, sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, sul diritto di impresa e di sfruttamento dei lavoratori oltre ogni umana possibilità».

Dal blocco dei licenziamenti al ritorno (probabile) alla Legge Fornero per il sistema previdenziale, il governo Draghi, unitamente alle disposizioni date con il Recovery Plan, concretizza una politica che obbedisce alle esigenze del capitalismo italiano e alle richieste di Bruxelles, soprattutto in materia di pensioni. Sono tutte garanzie che, invece che essere date al mondo del lavoro, vengono nuovamente assicurate all’organizzazione continentale dei mercati nazionali, protetti al momento dalle risorse stanziate dalla BCE e dalla Commissione Europea. Un conto amaro, salato, che pagheranno le prossime generazioni, visto che le ripercussioni della pandemia avranno un’onda lunga tanto economicamente quanto socialmene parlando.

Si va verso uno scostamento dei diritti che prevede il loro ulteriore ridimensionamento, rendendo così precaria tutta la vita di un cittadino: dal tempo degli studi a quello del lavoro fino a quello della (sempre più improbabile) pensione. La finzione di una previdenza che guardi soprattutto ai giovani, che stabilisca ad esempio le cosiddette “pensioni di garanzia“, così come un rilancio della previdenza complementare, sono barattate dai sindacati con una accettazione di un piano che prevede una maggiore flessibilità nell’uscita dal mondo del lavoro.

Nelle intenzioni sindacali può voler dire agevolare il ricambio generazionale senza far pagare tutto questo alle vecchie maestranze, a chi è arrivato a 62 anni di età o a 41 anni di contributi, ma per essere davvero tutelante, un piano simile deve comprendere la clausa dell’esigenza di non ritornare alla riforma Fornero, magari facendo appello ad una nuova risposta all’austerità contemplata dalla crisi sanitaria attuale e futura.

Per limitare progressivamente e in maniera esponenziale le morti sul lavoro bisogna prima di tutto migliorare la vita civile, sociale dei lavoratori, di tutti i cittadini, facendo in modo che le rivendicazioni economiche viaggino di pari passo con quelle che riguardano tutti gli altri aspetti della quotidianità.

Senza una visione del lavoro come variabile dipendente della vita e non (solo) del mercato, ogni riforma sarà un pannicello caldo e ogni promessa sarà una falsa promessa, ed avremo ancora morti in fabbrica e nei cantieri per i quali cercheremo l’alibi della distrazione umana, del difetto tecnico e dell’endemicità di un problema inesauribile, poché inscritto nel DNA del capitalismo, del mercato, del mondo produttivo. Sarà pure una consolazione, ma puzzerà sempre di incoscienza: padronale, sindacale, politica e pure popolare…

MARCO SFERINI

5 maggio 2021

foto tratta da Pixabay

 

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