Pubblichiamo una lunga analisi di Hanna Arendt su Rosa Luxemburg, uscita sul The New York Review of Books, Vol.7, No.5, nell’ottobre del 1966
1. La biografia definitiva di tipo inglese è uno dei più notevoli generi di storiografia. Approfondita, accuratamente documentata, pesantemente annotata e fitta di citazioni, prevede normalmente due volumi e dice di più, e più vividamente, sul periodo in questione di qualsiasi altro importante libro di storia. Infatti, diversamente da altri tipi di biografia, qui la storia non è trattata come l’inevitabile sfondo della vita di una persona famosa; invece, è come se la luce neutra del tempo storico fosse catturata e riflessa dal prisma di un grande carattere, così che nello spettro che ne risulta è ottenuta una completa unità di vita e mondo.
Per questo motivo, essa è divenuta il classico genere letterario per la vita dei grandi statisti, ma è rimasta abbastanza inadatta a rappresentare quelle persone il cui principale motivo di interesse risiede nella vita privata, o le vite di artisti, scrittori e, in generale, uomini e donne che erano costretti dal proprio talento a tenere il mondo a una certa distanza; uomini e donne il cui significato storico risiede nelle loro opere, gli artefatti che hanno donato al mondo, ma non nel ruolo che hanno svolto in esso.
J.P. Nettl ha avuto un vero colpo di genio quando ha scelto la vita di Rosa Luxemburg, la più improbabile dei candidati, come argomento di un genere che sembra adatto solo alla vita dei grandi statisti e di altre figure pubbliche. Essa non apparteneva certamente a questo tipo. Anche nel suo mondo, quello del socialismo europeo, era una figura piuttosto marginale, con momenti relativamente brevi di splendore o di grande evidenza, e la sua influenza può essere difficilmente paragonata a quella dei suoi contemporanei – Plechanov, Trockij, Lenin, Bebel o Kautsky, Jaurès o Míllerand.
Se il successo nel mondo è un requisito indispensabile per il successo in questo genere letterario, come poteva riuscire Nettl nel caso di questa donna, che era entrata giovanissima nel Partito socialdemocratico tedesco, muovendosi dalla natia Polonia, che continuò a svolgere un ruolo decisivo nella storia poco conosciuta e trascurata del socialismo polacco, e che poi, per due decenni, anche se mai ufficialmente riconosciuta, divenne la figura più controversa e meno compresa nella sinistra tedesca? Infatti, fu proprio il successo – il successo perfino nel suo mondo di rivoluzionari – ad esser negato a Rosa Luxemburg nella vita, nella morte e dopo la morte. Può essere che il fallimento di tutti i suoi sforzi, così come la mancanza di un riconoscimento ufficiale, sia in qualche modo connesso con il misero fallimento della rivoluzione nel nostro secolo? La storia sembrerebbe diversa se vista attraverso il prisma della vita e dell’opera di Rosa Luxemburg.
Comunque sia, non conosco altri libri che gettino più luce sul periodo decisivo del socialismo europeo che va dagli ultimi decenni del secolo scorso al giorno fatidico, nel gennaio 1919, in cui Rosa Luxemburg e Κarl Liebknecht, i due leader dello Spartakusbund, precursore del Partito comunista tedesco, furono assassinati a Berlino – sotto gli occhi, e probabilmente con la complicità, del governo socialista allora al potere. Gli assassini erano membri dei Freikorps, un’organizzazione paramilitare, ultra-nazionalista e ufficialmente illegale, in cui le truppe di assalto di Hitler avrebbero reclutato, di lì a poco i loro più promettenti assassini.
Che il governo dell’epoca fosse praticamente ostaggio dei Freikorps perché «godevano il pieno sostegno di Noske», l’esperto socialista di questioni militari, allora ministro dell’interno, è stato confermato solo recentemente dal capitano Pabst, l’ultimo sopravvissuto che prese parte all’assassinio.
Il governo di Bonn – in questo come in altri casi fin troppo ansioso di ripetere i tratti più sinistri della repubblica di Weimar – ha reso noto che fu grazie ai Greikorps che Mosca non riuscì a incorporare tutta la Germania in un impero russo dopo la prima guerra mondiale; e che l’uccisione di Liebnecht e Luxemburg fu del tutto legale: «Un’esecuzione in accordo con la legge marziale». Ciò è molto di più di quanto persino il governo di Weimar avesse mai preteso, perché esso non ammise mai pubblicamente che i Freikorps fossero di fatto un braccio armato del governo, e aveva punito gli assassini infliggendo una pena di due anni e due settimane di prigione al soldato Runge per «tentato omicidio» (aveva colpito Rosa Luxemburg alla testa nei corridoi dell’Hotel Eden), e una di quattro mesi al tenente Vogel (era l’ufficiale al comando quando spararono a Rosa Luxemburg in un’automobile e gettarono il corpo nel Landwehrkanal) per «aver nascosto il fatto e aver sottratto il cadavere».
Durante il processo, una fotografia che mostrava Runge e i suoi camerati mentre festeggiavano l’assassinio nello stesso albergo, pochi giorni dopo, fu presentata come prova, ciò che causò all’imputato grande ilarità: «Imputato Runge, si comporti in modo più corretto; questo non è un argomento di riso», disse il presidente della corte. Quarantacinque anni dopo, durante il processo Auschwitz a Francoforte, si svolse una scena analoga, e furono pronunciate le stesse parole.
Con l’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, la divisione della sinistra europea tra socialisti e comunisti divenne irreversibile: «L’abisso che i comunisti avevano raffigurato in teoria era divenuto… l’abisso di una tomba». E poiché questo primo delitto era stato favorito e spalleggiato dal governo, esso dette inizio alla danza della morte nella Germania del primo dopoguerra.
Gli assassini dell’estrema destra cominciarono a liquidare i più importanti esponenti dell’estrema sinistra – Hugo Haase e Gustav Landauer, Leo Jogiches e Eugène Leviné – e rapidamente estesero la loro attività al centro e al centro-destra – uccidendo Walther Rathenau e Matthias Erzberger, entrambi membri del governo al tempo del loro assassinio. Così la morte di Rosa Luxemburg divenne in Germania lo spartiacque tra due epoche; e divenne il punto di non ritorno per la sinistra tedesca. Tutti quelli che si erano avvicinati al partito comunista a causa di un’amara delusione nei confronti del partito socialista furono ancora più delusi dal rapido declino morale e dalla disintegrazione politica del partito comunista; e tuttavia, essi sentivano che rientrare nei ranghi socialisti avrebbe significato assolvere l’assassinio di Rosa Luxemburg.
Queste reazioni personali, che raramente sono ammesse pubblicamente, costituiscono i piccoli tasselli di mosaico che vanno al loro posto nel grande enigma della storia. Nel caso di Rosa Luxemburg, fanno parte della leggenda che presto circondò il suo nome. Le leggende hanno una propria verità, ma Nettl ha fatto benissimo a non aver prestato quasi nessuna attenzione al mito di Rosa Luxemburg. Egli aveva il compito, abbastanza difficile, di restituire la sua figura alla storia.
Poco dopo la sua morte, quando tutti a sinistra avevano già deciso che si era «sbagliata» («un caso veramente senza speranza», come George Lichtheim, l’ultimo di questa lunga serie, ha scritto in Encounter), avvenne un curioso mutamento della sua reputazione.
Furono pubblicati due volumetti che contenevano le sue lettere, e queste – interamente personali, ma dotate di una bellezza semplice, umanamente toccante e spesso poetica, furono sufficienti a distruggere l’immagine, diffusa dalla propaganda, di «Rosa la rossa» assetata di sangue, tranne che nei circoli più reazionari e antisemiti. In ogni modo, si sviluppò presto un’altra leggenda – l’immagine sentimentale della donna che amava guardare gli uccelli e i fiori, della prigioniera cui le guardie avevano detto addio con le lacrime agli occhi, quando fu scarcerata, come se non potessero continuare a vivere senza questa strana reclusa che li aveva sempre trattati come esseri umani.
Nettl non fa cenno di questa storia, fedelmente trasmessami quando ero bambina, e più tardi confermata da Kurt Rosenfeld, suo amico e avvocato, che sosteneva di aver assistito all’episodio. Probabilmente è abbastanza vera, e i suoi aspetti un po’ imbarazzanti sono bilanciati da un altro aneddoto, che è ricordato da Nettl.
Nel 1907, lei e la sua amica Clara Zetkin (più tardi la «grande vecchia» del comunismo tedesco) erano andate in gita, avevano perso la nozione del tempo ed erano giunte in ritardo a un appuntamento con August Bebel, che aveva temuto che si fossero perdute. Rosa aveva proposto allora l’epitaffio: «Qui giacciono gli ultimi due uomini della socialdemocrazia tedesca». Sette anni più tardi, nel febbraio 1914, ebbe occasione di provare la verità di questo scherzo feroce nello splendido discorso ai giudici del tribunale che l’avevano accusata di «incitare» le masse alla disobbedienza civile in caso di guerra (niente male, detto per inciso, per una donna che «si sbagliava sempre», essere processata per questa accusa cinque mesi prima dello scoppio della guerra mondiale, che poche persone «avvedute» avevano ritenuto possibile). Nettl ha giustamente ripubblicato integralmente il discorso, la cui «fierezza» non ha riscontro nella storia del socialismo tedesco.
Furono necessari alcuni anni, e altre catastrofi, perché la leggenda divenisse il simbolo della nostalgia per i buoni vecchi tempi del movimento, quando le speranze erano ancora giovani, la rivoluzione dietro l’angolo e, più importante di tutto la fede nella capacità delle masse e nell’integrità morale dei dirigenti socialisti o comunisti ancora intatta. Parla a favore non solo della persona di Rosa Luxemburg, ma anche delle qualità di questa vecchia generazione della sinistra, che la leggenda – vaga, confusa, poco accurata in quasi ogni dettaglio – si sia diffusa nel mondo e abbia ricominciati a vivere ogni volta che è venuta alla luce una Nuova sinistra.
Ma accanto a questa immagine piena di fascino, sono sopravvissuti anche i vecchi cliché della «femmina attaccabrighe», una «romantica» che non fu «realistica» né scientifica (è vero che fu sempre fuori dei ranghi), e le cui opere soprattutto il grande libro sull’imperialismo (L’accumulazione del capitale, 1913) furono prese sottogamba. Ogni movimento della Nuova sinistra, quando cominciò a trasformarsi in Vecchia sinistra – di solito quando i membri raggiungevano i quarant’anni – ha rapidamente sepolto il suo entusiasmo per Rosa Luxemburg insieme ai sogni della giovinezza; e poiché essi solitamente non si preoccupavano di leggere (e tantomeno di capire) ciò che aveva da dire, non fu loro difficile dato il condiscendente filisteismo dello status ora acquisito, mettere da parte Rosa Luxemburg.
Il «luxemburghismo» invenzione postuma a fini polemici degli scribacchini del partito, non ha mai ottenuto l’onore di essere e denunciato come «tradimento». Nulla di ciò che Rosa Luxemburg ha scritto o detto è sopravvissuto, tranne che le sue critiche singolarmente penetranti della strategia dei bolscevichi durante le prime fasi della rivoluzione russa; e ciò solo perché quelli peri quali «il dio aveva fallito» potevano usare le sue critiche come strumento appropriato, anche se del tutto inadeguato, contro Stalin. («C’è qualcosa di indecente nell’uso degli scritti e del nome di Rosa come armi della guerra fredda», ha sottolineato nel Times Literary Supplement il recensore del libro di Nettl).
I suoi nuovi ammiratori non hanno nulla in comune con lei se non i detrattori. La sua acuta sensibilità per le differenze teoriche e la sua infallibile capacità di giudicare le persone, le sue antipatie e le sue simpatie, le avrebbero impedito di confondere Lenin con Stalin in ogni circostanza – indipendentemente dal fatto che non fu mai una «credente», non ha mai usato la politica come succedaneo della religione ed è stata attenta, come nota Nettl, a non attaccare la religione quando si opponeva alla Chiesa.
In breve, mentre «la rivoluzione era per lei prossima e concreta come per Lenin», non pensava che la rivoluzione, allo stesso modo del marxismo, fosse un articolo di fede. Lenin era prima di tutto un uomo d’azione, e avrebbe trattato ogni evento in termini politici, ma lei, che diceva di sé stessa in modo semiserio di essere nata per «occuparsi di cose futili», avrebbe potuto immergersi nello studio della botanica o della zoologia, della storia o dell’economia, se i casi del mondo non avessero offeso i suoi sentimenti di giustizia e di libertà.
Ciò significa ovviamente ammettere che non era una marxista ortodossa, o così poco ortodossa da far dubitare che fosse marxista. Nettl sottolinea giustamente che per lei Marx era solo «miglior interprete della realtà di chiunque altro», e la sua mancanza di fede personale è rivelata dal fatto che abbia scritto: «Provo ora un senso orrore per il tanto celebrato primo libro del Capitale a causa dei complicati ornamenti rococò alla Hegel». Ciò che contava soprattutto, dal suo punto di vista, era la realtà, in tutti i suoi aspetti meravigliosi e orrendi, molto più della stessa rivoluzione. La sua mancanza di ortodossia era innocente e non polemica; «raccomandava ai suoi amici di leggere Marx per “l’audacia dei suoi pensieri, il rifiuto di prendere alcunché per scontato” anziché per il valore delle sue conclusioni. Gli errori di Marx parlavano da soli; e proprio per questo motivo, non si dette mai la briga di impegnarsi in una approfondita critica di Marx».
Tutto ciò è del tutto evidente in L’accumulazione del capitale, che il solo Franz Mehring, data la sua mancanza di pregiudizi, definì «un risultato magnifico e affascinante, senza eguali dopo la morte di Marx». La tesi principale di «questa curiosa opera di genio» è abbastanza semplice. Poiché il capitalismo non mostrava alcun segno di collasso «sotto il perso delle sue contraddizioni economiche», Rosa Luxemburg cominciò a cercare una causa esterna per spiegare il fatto che continuasse a esistere e a svilupparsi.
La trovò nella cosiddetta teoria del «fattore indipendente», cioè nel fatto che il processo di a sviluppo non era soltanto la conseguenza delle leggi innate che governano la produzione capitalistica, ma della protratta esistenza di settori pre-capitalistici nei paesi che il capitalismo conquistava o attirava nella propria sfera di influenza. Una volta che questo processo si era esteso a tutto il territorio nazionale, i capitalisti erano obbligati a prendere in esame altre zone della terra, i paesi precapitalistici, per assorbirli nel processo di accumulazione del capitale che, per così dire, si alimentavi con qualsiasi realtà gli fosse esterna.
In altre parole, l’accumulazione originaria di Marx non era, come il peccato originale, un evento unico, un’eccezionale strategia di espropriazione da parte della nascente borghesia, capace di fondare un processo di accumulazione che avrebbe d’ora in poi seguito con «ferrea necessità» le proprie leggi interne fino alla crisi finale. Al contrario, l’espropriazione doveva essere ripetuta sempre di nuovo per mantenere in vita il sistema.
Perciò, il capitalismo non costituiva un sistema chiuso che produceva le proprie contraddizioni ed era «gravido di rivoluzione»; si alimentava con fattori esterni, e il suo collasso automatico sarebbe sopravvenuto, alla fine, solo quando l’intera faccia della terra fosse stata conquistata e divorata. Lenin comprese rapidamente che questa analisi, indipendentemente dai suoi pregi e dai suoi difetti, era essenzialmente non marxista. Essa contraddiceva le stesse basi della dialettica hegeliana e marxiana, secondo cui ogni tesi deve produrre la propria antitesi – così come la borghesia crea il proletariato – in modo tale che l’intero processo rimane determinato dal fattore iniziale che lo ha causato.
Lenin sottolineava che dal punto di vista del materialismo dialettico «la sua tesi secondo cui con la riproduzione capitalistica allargata era impossibile in un sistema economico chiuso e aveva bisogno di cannibalizzare le economie solo allo scopo di funzionare (…) era un “errore fondamentale”». Il guaio era solo che si trattava di un errore nella teoria marxiana astratta, ma era una analisi straordinariamente fedele della realtà delle cose. La sua accurata «analisi dell’oppressione dei neri in Sud Africa» era anch’essa chiaramente «non marxista», ma chi potrebbe negare oggi che era del tutto appropriata in un libro sull’imperialismo?
2. Dal punto di vista storico, il risultato più notevole e originale di Nettl è la scoperta del «gruppo di pari» ebraico-polacco, nonché l’attaccamento, accuratamente nascosto, di Rosa Luxemburg al partito polacco che ne scaturì. Si tratta in realtà di una fonte molto significativa e totalmente trascurata, non della rivoluzione, ma dello sviluppo rivoluzionario nel ventesimo secolo. Questo gruppo, che già negli anni Venti aveva perso importanza politica, è ora completamente scomparso. Il suo nucleo era composto di ebrei assimilati di famiglie del ceto medio, il cui retroterra culturale era tedesco (Rosa Luxemburg conosceva Goethe e Mörike a memoria, e il suo gusto letterario era impeccabile, di gran lunga superiore a quello dei suoi amici tedeschi).
La formazione politica dei membri del gruppo era russa e i loro criteri morali nella vita privata e pubblica erano esclusivamente autonomi. Questi ebrei una piccola minoranza all’Est, e una percentuale ancora più trascurabile di ebrei assimilati all’Ovest, erano estranei a ogni gerarchia sociale, ebraica o non ebraica, e perciò non avevano alcun pregiudizio convenzionale, e avevano sviluppato, in questo isolamento veramente splendido, un proprio codice d’onore – che poi conquistò alcuni non ebrei come Julian Marchlewski e Felix Dzerzinskij, che più tardi entrarono nella frazione bolscevica. Fu proprio a causa di queste caratteristiche uniche che Lenin nominò Dzerzinskij capo della Ceka, perché sperava che fosse incorruttibile dal potere; in fondo, non aveva chiesto insistentemente di essere nominato commissario all’istruzione e all’assistenza dei bambini?
Nettl sottolinea giustamente le eccellenti relazioni di Rosa Luxemburg con la sua famiglia, i genitori, i fratelli, la sorella e la nipote, nessuno dei quali dimostrò mai la minima inclinazione per le convinzioni socialiste e le attività rivoluzionarie, ma che fecero sempre il possibile per lei quando si nascondeva dalla polizia o era in prigione. La questione è degna di nota, perché ci apre uno spiraglio su questo eccezionale ambiente familiare ebraico, senza il quale sarebbe quasi incomprensibile il formarsi di un codice etico del «gruppo di pari». Il profondo denominatore comune di persone che si erano sempre trattate reciprocamente da eguali – ma difficilmente avrebbero fatto lo stesso con altri – era l’esperienza essenzialmente semplice di un mondo infantile in cui il mutuo rispetto e la fiducia incondizionata, una umanità universale e un disprezzo quasi naïf per le distinzioni sociali ed etniche, erano dati per scontati.
Quanto i membri del gruppo avevano in comune era ciò che potremmo chiamare gusto morale, che è così diverso dai «principi morali»; l’autenticità della loro moralità era dovuta al fatto di essere cresciuti in un mondo solidale. Ciò conferiva loro una «rara fiducia in sé stessi», così inabituale nel mondo in cui vissero, e così aspramente avversata come arroganza e presunzione. Questo milieu, e mai il partito tedesco, rimase la vera casa li Rosa Luxemburg. Fino a un certo punto la casa poteva essere trasferita, e poiché rimase principalmente ebraica non poté coincidere con alcuna «patria».
È ovviamente molto suggestivo che il Sdkpil (socialdemocrazia del regno di Polonia e di Lituania, chiamata in precedenza Sdpk, socialdemocrazia del regno di Polonia), il partito cui appartenevano in prevalenza membri del «gruppo di pari», si separasse dal Partita socialista polacco, il Pps, a causa della posizione favorevole di quest’ultimo all’indipendenza polacca (Pilsudski, il dittatore fascista della Polonia dopo la prima guerra mondiale, ne fu la conseguenza più nota) e dopo la scissione i membri del gruppi divenissero ardenti difensori di un internazionalismo spesso dottrinario.
È ancora più suggestivo che la questione nazionale sia l’unico tema per il quale si possa accusare Rosa Luxemburg di essersi sbagliata e di non aver guardato in faccia la realtà. Che ciò abbia più o meno a che fare con la sua ebraicità e innegabile, benché sia ovviamente «assurdo in modo deplorevole» scoprire nel suo anti-nazionalismo una «qualità peculiarmente ebraica». Nettl, anche se non tace alcun aspetto, è molto attento ad evitare il «problema ebraico», e di fronte al livello solitamente basso della discussione su questo punto possiamo solo approvare la sua decisione.
Sfortunatamente, la sua comprensibile riluttanza gli ha fatto ignorare i pochi fatti importanti della questione, e di questo bisogna rammaricarsi perché questi fatti, benché di natura semplice ed elementare, sfuggirono alla mente acuta e sensibile di Rosa Luxemburg.
Il primo è ciò che solo Nietzsche, che io sappia, ha sottolineato: e cioè che la posizione e le funzioni del popolo ebraico in Europa predestinarono a divenire il popolo dei «buoni europei» per eccellenza. Il ceto medio ebraico di Parigi e di Londra, di Berlino e di Vienna, di Varsavia e di Mosca, non era di fatto né cosmopolita né internazionale, benché gli intellettuali che vi appartenevano si pensassero tali. Essi erano autentici europei, ciò che non può essere detto di nessun altro gruppo.
E questo non era una faccenda di punti di vista, ma un fatto obiettivo. In altre parole, mentre l’auto-inganno degli ebrei assimilati consisteva solitamente nell’erronea credenza di essere tedeschi come i tedeschi, francesi come i francesi, l’auto-inganno degli intellettuali ebrei consisteva nel pensare di non avere una «patria» perché la loro vera patria era l’Europa. In secondo luogo c’è il fatto che almeno gli intellettuali dell’Europa dell’Est erano poliglotti – la stessa Rosa Luxemburg parlava correntemente polacco, russo, tedesco te francese, a Rosa Luxemburg parlava correttamente polacco, russo, tedesco e francese, e conosceva molto bene l’inglese e l’italiano.
Essi non compresero mai abbastanza l’importanza delle barriere linguistiche e perché lo slogan «la patria della classe lavoratrice è il movimento socialista» dovesse dimostrarsi così disastrosamente sbagliato proprio per la classe operaia. In realtà, è abbastanza singolare che la stessa Luxemburg, con il suo acuto senso e il suo rigoroso rifuggire dai cliché, non abbia avvertito qualcosa di sbagliato nello stesso principio dello slogan. Una patria, dopotutto, è soprattutto una «terra».
Un’organizzazione non è un paese, nemmeno da un punto divista metaforico. Perciò, c’è un’amara giustizia nella successiva trasformazione dello slogan in «la patria della classe operaia è la Russia sovietica (la Russia era almeno un paese) che segnò la fine dell’internazionalismo utopico di quella generazione.
Si potrebbero citare altri fatti di questo tipo, e tuttavia sarebbe difficile sostenere che Rosa Luxemburg fosse completamente in errore sulla questione nazionale. Che cosa, dopo tutto, contribuito di più al declino catastrofico dell’Europa, del folle nazionalismo che si accompagnò al declino dello Stato nazionale nell’era dell’imperialismo? Quelli che Nietzsche aveva chiamato i «buoni europei» – una trascurabile minoranza anche tra gli ebrei – potrebbero essere stati i soli a presentire le disastrose conseguenze future, benché fossero incapaci di misurare correttamente l’enorme forza dei sentimenti nazionalistici in un corpo politico in decomposizione.
3. Strettamente connessa con la scoperta del «gruppo di pari» polacco, e con il suo permanente ruolo nella vita pubblica e privata di Rosa Luxemburg, è la rivelazione da parte di Nettl di fonti fino ad allora inaccessibili, che gli hanno permesso di costruire un ritratto della sua vita – «la deliziosa faccenda di vivere e di amare». È ora chiaro che non conoscevamo pressoché nulla della sua vita privata per il semplice motivo che Rosa Luxemburg l’aveva accuratamente protetta dalla notorietà.
Non si tratta di una mera questione di fonti. Ma è stata una vera fortuna che Nettl scoprisse dei nuovi materiali, ed egli ha ragione a trascurare sempre i pochi predecessori che non erano tanto ostacolati dall’impossibilità di accedere ai fatti quanto dalla loro incapacità di mettersi, pensare e sentire in sintonia con il proprio soggetto. La sicurezza con cui Nettl maneggia il suo materiale biografico è stupefacente. Il suo modo di trattarlo va al di là della sensibilità. Il suo è il primo ritratto plausibile di questa donna straordinaria, schizzato con amore, con tatto ed estrema delicatezza. È come se Rosa Luxemburg avesse trovato il suo ultimo ammiratore, ed è proprio per questo che si può essere irritati da alcuni giudizi di Nettl.
Egli certamente si sbaglia quando sottolinea la sua ambizione, e la sua aspirazione alla carriera. Pensa forse che il violento disprezzo di Rosa Luxemburg per i carrieristi e i cacciatori di status nel partito tedesco – si pensi alla loro gioia quando furono ammessi al Reichstag – fosse mera affettazione? Crede che una persona veramente «ambiziosa» potesse permettersi di essere così generosa?
Una volta, in un congresso internazionale, Jaurès concluse un eloquente discorso «mettendo in ridicolo le passioni fuorviate di Rosa Luxemburg, [ma] non c’era nessuno che potesse tradurlo. Rosa intervenne e riprodusse il tono vibrante del discorso, dal francese in un tedesco altrettanto espressivo»). E come può Nettl mettere d’accordo il suo giudizio – se non presupponendo un atteggiamento di disonestà e autoinganno – con la frase commovente di una sua lettera a Jogiches: «Ho un maledetto desiderio di felicità e sono pronta a mercanteggiare la mia parte di felicità con la cocciutaggine di un mulo».
Ciò che Nettl chiama erroneamente ambizione è la forza naturale di un temperamento capace, per dirla con il suo stesso tono scherzoso, di «mettere a fuoco una prateria», che la spinse quasi contro la sua volontà negli affari pubblici, e governò perfino gran parte delle sue attività strettamente intellettuali. Anche se Nettl sottolinea ripetutamente l’alto livello morale di quel «gruppo di pari», egli sembra non comprendere che questioni come l’ambizione, la carriera, lo status, e anche il successo erano interdette dal più rigoroso dei tabù.
C’è un altro aspetto della sua personalità che Nettl sottolinea ma di cui non sembra comprendere le implicazioni: che lei fosse «così timidamente donna». Anche questo fatto in quanto tale sembra limitare le sue supposte ambizioni – poiché Nettl non attribuisce a lei più di quanto sarebbe stato naturale in un uomo con il suo talento e le sue possibilità.
La sua diffidenza per il movimento di emancipazione femminile, verso il quale tutte le donne della sua generazione che condividevano le sue stesse convinzioni erano irresistibilmente attratte, era significativa. Davanti alla eguaglianza delle suffragette, potrebbe essere stata tentata di rispondere: «Vive la petíte différence». Era una outsider, non solo perché era e rimaneva una ebrea polacca in un paese che non amava e in un partito che cominciò ben presto a disprezzare, ma anche perché era una donna.
Possiamo ovviamente scusare Nettl per i suoi pregiudizi maschili; essi non avrebbero importanza se non gli avessero impedito di comprendere pienamente il ruolo che Leo Jogiches, suo marito sotto ogni aspetto e suo primo e unico uomo, svolse nella sua vita. La grave crisi tra loro, causata dalla breve relazione di Jogiches con un’altra donna e complicata all’infinito dalla furiosa reazione di Rosa, era tipica del loro tempo e del loro ambiente, come fu tipico il seguito, la sua gelosia e il suo rifiuto, durato anni, di dimenticarlo. Questa generazione credeva ancora fermamente che l’amore fosse uno solo nella vita, e il suo disinteresse per le formalità matrimoniali non deve essere frainteso come adesione al libero amore.
I documenti prodotti da Nettl provano che Rosa Luxemburg aveva amici e ammiratori, e che ne era felice, ma non indica certamente che ci fosse un altro uomo nella sua vita. Credere nei pettegolezzi che circolavano nel partito, secondo cui avrebbe pensato di sposarsi con «Hänschen» Diefenbach, a cui dava del Lei, e che mai pensò di trattare su un piano di parità, mi sembra una vera e propria sciocchezza. Nettl definisce la storia di Leo Jogiches e di Rosa Luxemburg «una delle più grandi e tragiche storie d’amore del socialismo», e non necessario contestare questo giudizio se solo si comprende che non fu «una cieca e autodistruttiva gelosia» a causare la tragica fine della loro relazione, ma furono la guerra e gli anni di prigione, il disastro della rivoluzione tedesca e il sito esito sanguinoso.
Leo Jogiches, il cui nome Nettl ha tratto dall’oblio, era una figura veramente notevole e tuttavia tipica trai rivoluzionari di professione. Agli occhi di Rosa Luxemburg, egli era sotto ogni punto di vista masculini generis, ciò che era di notevole importanza per lei. Rosa Luxemburg preferiva il conte Westarp (il leader del partito conservatore tedesco) a tutti i santoni del socialismo tedesco «perché», come diceva, «è un uomo».
Rispettava pochissime persone e Jogiches era in cima a una lista in cui solo i nomi di Franz Mehring e di Lenin possono essere inclusi con certezza. Egli era sotto ogni aspetto un uomo di azione e di passione, sapeva come si agiva e come si soffriva.
Si è tentati di paragonarlo con Lenin, a cui in un certo senso assomiglia, tranne che per la sua passione per l’anonimato e per muovere le fila dietro le quinte nonché per il suo amore per la cospirazione e il pericolo, ciò che deve avergli conferito un fascino erotico ancora più grande. In realtà era un Lenin mancato, perfino nella sua incapacità di scrivere, totale nel suo caso (come Rosa Luxemburg osservò ritraendolo in modo penetrante ma autenticamente appassionato in una lettera), e nella sua mediocrità di pubblico oratore.
Entrambi, Jogiches e Lenin, avevano un grande talento per l’organizzazione e la capacità di dirigere, e per nient’altro, e così si sentivano impotenti e superflui quando non c’era nulla da fare ed erano lasciati soli con sé stessi. Questo si avverte meno nel caso di Lenin, perché non visse quasi mai in completo isolamento, ma Jogiches era caduto ben presto in disgrazia nel partito russo a causa di un dissidio con Plechanov – il patriarca dell’emigrazione russa in Svizzera durante gli anni Novanta – che considerava quel giovanotto spavaldo venuto dalla Polonia come «una versione in miniatura di Nečaev».
Per conseguenza Jogiches era, secondo Rosa Luxemburg, «un essere completamente sradicato, che vegetò» per molti anni, finché la rivoluzione del 1905 gli offrì una prima opportunità: «Abbastanza rapidamente non solo conquistò il rango di leader nel partito polacco, ma anche in quello russo». (Il Sdkpil ebbe un ruolo di primo piano durante la rivoluzione e divenne ancor più importante negli anni seguenti. Jogiches, benché dal canto suo non «scrivesse una sola riga» rimase «nondimeno l’anima» delle sue pubblicazioni).
Egli ebbe il suo ultimo breve momento quando «completamente sconosciuto nel Partito tedesco» organizza un’opposizione clandestina nell’esercito tedesco durante la prima guerra mondiale. «Senza di lui non sarebbe stato possibile lo Spartakusbund» che, diversamente da ogni altro gruppo di sinistra in Germania divenne il tipo ideale di «gruppo di pari» (ciò non significa ovviamente che Jogiches abbia causato la rivoluzione in Germania; come tutte le rivoluzioni, essa non fu opera di qualche individuo; anche lo Spartakusbund «non provocò ma piuttosto seguì gli eventi», è l’idea che l’insurrezione degli spartachisti del gennaio 1918 fosse promossa o causata dai suoi dirigenti – Rosa Luxemburg, Liebknecht, Jogiches – è solo un mito).
Non sapremo mai quante delle idee delle idee politiche di Rosa Luxemburg derivassero da Jogiches; nel matrimonio non è sempre facile distinguere i pensieri dei partner. Ma che egli fallisse dove lei in riuscì era un prodotto delle circostanze – era ebreo e polacco – quanto della sua minore statura di dirigente. In ogni modo, Rosa Luxemburg sarebbe stata l’ultima a rinfacciarglielo.
I membri del gruppo non si giudicavano in base a queste categorie. Lo stesso Jogiches sarebbe stato d’accordo con Eugéne Leviné, un ebreo russo più giovane: «Siamo dei morti in licenza». È questo sentimento che lo teneva in disparte dagli altri; infatti né Lenin né Trockij né Rosa Luxenburg avrebbero probabilmente pensato in tal modo. Dopo la morte di Rosa Luxemburg, Jogiches rifiutò di mettersi in salvo fuggendo da Berlino: «Qualcuno deve rimanere per scrivere i nostri epitaffi». Fu arrestato due mesi dopo l’assassinio di Liebknecht e Luxemburg e ucciso a tradimento in una stazione di polizia.
Il nome dell’assassino era conosciuto, ma «non fu fatto alcun tentativo di punirlo»; costui uccise un altro uomo nello stesso modo, e poi «continuò la sua carriera con una promozione nella polizia prussiana». Questi erano i mores della repubblica di Weimar.
A leggere e ricordare queste vecchie storie, si diviene dolorosamente consapevoli della differenza tra i compagni tedeschi e i membri del gruppo. Durante la rivoluzione russa del 1905, Rosa Luxemburg fu arrestata a Varsavia, e i suoi amici raccolsero il denaro per la difesa (probabilmente offerto dal partito tedesco). Al pagamento fu acclusa «una ufficiosa minaccia di rappresaglia; se fosse successo qualcosa a Rosa Luxemburg, avrebbero compiuto delle azioni di vendetta contro importanti funzionari. Questa nozione di «azione» non entrò mai nella mentalità dei suoi amici tedeschi, prima o dopo l’ondata di assassini politici, quando l’impunità di simili atti divenne notoria.
4. Retrospettivamente più sconcertanti — e certamente più dolorosi per lei — dei suoi supposti errori, sono i pochi casi decisivi in cui Rosa Luxemburg non fu in contrasto, ma sembrò invece accordarsi con le forze ufficialmente al potere nel Partito socialdemocratico tedesco. Furono dei veri e propri errori, ma non ce ne fu nessuno che non riconoscesse e non rimpiangesse amaramente,
Il meno dannoso riguardava la questione nazionale. Era arrivata nel 1898 in Germania provenendo da Zurigo, dove aveva superato l’esame di dottorato «con una tesi di prim’ordine sullo sviluppo industriale della Polonia» (secondo il professor Wolf, il quale nella sua autobiografia ricordava affettuosamente la «più capace dei suoi allievi»), che ottenne l’insolito «onore dell’immediata pubblicazione» ed è ancora usata dagli studiosi di storia polacca. La sua tesi era che lo sviluppo economico della Polonia dipendesse interamente dal mercato russo e che ogni tentativo «di formare uno Stato linguistico o nazionale fosse la negazione di qualsiasi sviluppo e progresso per almeno cinquant’anni»). (Che da un punto di vista economico avesse ragione è dimostrato dalla crisi cronica della Polonia tra le due guerre.)
Divenne poi esperta di problemi polacchi nel partito tedesco, e suo agente di propaganda tra la popolazione polacca della Germania orientale, e strinse una difficile alleanza con quelli che desideravano «germanizzare» i polacchi e avrebbero «fatto a meno volentieri di tutti i polacchi compresi i socialisti», come le disse un segretario del partito socialista tedesco. Certamente, «il calore con cui il partito approvò ufficialmente la sua posizione non era sincero».
Molto più grave fu il sui ingannevole accordo con i dirigenti del partito nella controversia sul revisionismo, in cui giocò una parte di primo piano. Questo famoso dibattito fu innescato da Eduard Bernstein, ed è storicamente noto come l’alternativa riformista alla rivoluzione. Ma questo slogan è fuorviante per due motivi; fa sembrare che il Partito socialdemocratico tedesco alla svolta del secolo fosse ancora impegnato in una lotta rivoluzionaria, il che non è vero; e nasconde l’obiettiva fondatezza di molti argomenti di Bernstein.
La critica di Bernstein delle teorie economiche di Marx era in realtà, come egli sosteneva, in «pieno accordo con la realtà». Egli sottolineava che l’enorme «aumento di ricchezza sociale non [era] accompagnato da una diminuzione dei grandi capitalisti ma da un crescente aumento dei capitalisti di ogni dimensione», che «non si erano verificate una diminuzione della classe dei benestanti e una crescente miseria dei poveri», che «il proletariato moderno era certamente povero ma non indigente», e che lo slogan di Marx «il proletariato non ha patria», non era vero. Il suffragio universale gli aveva conferito i diritti politici, i sindacati un ruolo nella società, e il nuovo sviluppo imperialistico una posta evidente nella politica estera delle nazioni.
Indubbiamente la reazione della socialdemocrazia tedesca a queste verità sgradite era principalmente ispirata da una riluttanza profonda a riesaminare criticamente i propri fondamenti teorici, ma questa riluttanza fu enormemente aggravata dagli interessi costituiti dal partito nello status quo, minacciati dalle analisi di Bernstein. In gioco era il ruolo della socialdemocrazia come «Stato nello Stato»: il partito era effettivamente divenuto una burocrazia immensa e ben organizzata, estranea alla società, e che aveva ogni interesse a mantenere le cose come stavano.
Il revisionismo à la Bernstein avrebbe riportato il partito nella società tedesca; e tale «integrazione» era considerata tanto pericolosa per gli interessi del partito quanto la rivoluzione. Nettl propone una interessante teoria sulla posizione di paria della socialdemocrazia tedesca nella società tedesca e sulla sua incapacità di Partecipare al governo. Sembrava ai suoi membri che il partito potesse «offrire in quanto tale una superiore alternativa al capitalismo corrotto».
Di fatto, mantenendo «intatte le difese contro la società su tutti i fronti», generava quell’ingannevole sentimento di «solidarietà» (come sostiene Nettl) che i socialisti francesi trattavano con profondo disprezzo. In ogni caso, era ovvio che quanto più il partito aumentava di numero, tanto più il suo slancio radicale diveniva «inesistente». Si poteva vivere in modo veramente confortevole in questo «Stato nello Stato» evitando ogni attrito con la società in generale, mantenendo un senso di superiorità morale senza alcuna conseguenza.
Non era nemmeno necessario pagare il prezzo di una radicale alienazione poiché questa società di paria non era di fatto che una immagine speculare, un «riflesso in miniatura, della società tedesca. «Questo vicolo cieco imboccato dalla socialdemocrazia tedesca potrebbe essere analizzato correttamente da diversi punti di vista — sia da quello del revisionismo di Bernstein, che riconosceva l’emancipazione della classe operaia nella società capitalistica come un fatto compiuto, ed esigeva che si smettesse di parlare di una rivoluzione a cui nessuno pensava più; oppure da quello di chi non era meramente «alienato» dalla società borghese ma voleva realmente cambiare il mondo.
Quest’ultimo era il punto di vista dei rivoluzionari venuti dall’Est che guidarono gli attacchi contro Bernstein — Plechanov, Parvus e Rosa Luxemburg — e che furono appoggiati da Karl Kautsky, il più prestigioso teorico del partito, benché egli si sentisse molto più a suo agio con Bernstein che in compagnia di questi nuovi alleati stranieri. La loro fu una vittoria di Pirro. «Semplicemente approfondirono l’alienazione rifiutando la realtà.
Infatti il vero problema non era né teorico né economico. In gioco c’era la convinzione di Bernstein, nascosta quasi con vergogna in una nota a piè di pagina, che «la classe media — non esclusa quella tedesca — fosse ancora abbastanza ricca non solo economicamente ma anche moralmente (corsivo mio). Questo era il motivo per cui Plechanov lo chiamava un «filisteo» e Parvus e Rosa Luxemburg ritenevano lo scontro così decisivo per il futuro del partito.
La verità è che Bernstein e Kautsky avevano in comune l’avversione per la rivoluzione. La «ferrea legge della necessità» era per Kautsky la migliore giustificazione per non cambiare nulla.
I profughi dell’Europa orientale erano gli unici che non solo credevano nella rivoluzione come una necessità teorica, ma desideravano agire attivamente in questa direzione, precisamente perché consideravano la società così come era inaccettabile su un piano morale, sul piano della giustizia. Bernstein e Rosa Luxemburg avevano in comune, d’altro canto, l’onestà intellettuale (e questo può spiegare forse la «segreta tenerezza di Bernstein» per lei), analizzavano quello che vedevano, erano leali nei confronti della realtà e criticavano Marx; Bernstein ne era consapevole, e nella sua risposta agli attacchi di Rosa Luxemburg nota astutamente che lei «aveva messo in dubbio le previsioni complessive di Marx sul futuro sviluppo della società, in quanto basate sulla teoria della crisi».
I primi successi di Rosa Luxemburg nel partito tedesco si basavano su un doppio equivoco. Alla svolta del secolo la socialdemocrazia tedesca era «motivo di vanto e di invidia da parte dei socialisti di tutto il mondo». August Bebel, il «grande vecchio» che, da quando Bismarck aveva fondato il Reich tedesco fino allo scoppio della prima guerra mondiale, dominava lo spirito e la strategia della socialdemocrazia aveva sempre proclamato: «Io sono e sarò sempre il mortale nemico della società esistente». Non era questo lo spirito del gruppo polacco?
Non si poteva assumere in base a questo fiero gesto di sfida che il partito tedesco fosse proprio quello che il Sdkpil proclamava a gran voce? Fu necessario a Rosa Luxemburg quasi un decennio — finché tornò dalla rivoluzione russa del 1905 — per comprendere che il segreto di questa sfida era, da una parte, la deliberata intenzione di non farsi coinvolgere nel mondo e, dall’altra, l’esclusiva preoccupazione perla crescita dell’organizzazione del partito. A partire da questa esperienza Rosa Luxemburg sviluppò, dopo il 1910, il suo programma di un costante «attrito» con la società, senza il quale, come poi comprese, l’autentica fonte dello spirito rivoluzionario sarebbe stata condannata a sparire.
Non voleva passare la sua vita in una setta, per quanto imponente; la sua fede nella rivoluzione era soprattutto un fatto morale, e ciò significava che rimaneva appassionatamente impegnata nella vita pubblica e negli affari civili, nei destini del mondo. Il suo coinvolgimento nella politica europea, estranea agli immediati interessi della classe operaia, e perciò al di là delle prospettive marxiste, appare con grande evidenza nella sua insistenza su «un programma repubblicano» per i partiti tedesco e polacco.
Questo è uno dei punti principali della sua famosa Juniusbroschüre, redatta in prigione durante la guerra, e poi usata come piattaforma per lo Spartakusbund. Lenin, che non ne conosceva l’autore, dichiarò immediatamente che proclamare «il programma di una repubblica (…) [significava] in pratica proclamare la rivoluzione, con un programma rivoluzionario sbagliato».
Ebbene, un anno più tardi, la rivoluzione scoppiò in Russia senza alcun programma, e il suo primo risultato fu l’abolizione della monarchia e la costituzione di una repubblica, e lo stesso doveva avvenire in Germania e in Austria. Ciò, ovviamente, non aveva impedito ai compagni tedeschi, russi e polacchi di dissentire violentemente con lei su questo punto. In realtà è proprio la questione della repubblica, più che quella della nazione, a separarla in modo decisivo da tutti gli altri. Su questo punto fu completamente sola, come era isolata, anche se in modo evidente, nell’importanza attribuita non solo alla libertà privata ma a quella pubblica in ogni circostanza.
Un secondo equivoco è direttamente connesso con il dibattito revisionista. Rosa Luxemburg fraintese la resistenza di Kautsky alla tesi di Bernstein, considerandola il segno di un autentico impegno rivoluzionario. Dopo la rivoluzione russa del 1905, a causa della quale si precipitata a Varsavia con falsi documenti, non poteva più ingannarsi. Per lei, questi mesi costituirono non solo un’esperienza decisiva, ma furono anche «i più felici della mia vita». Al ritorno, cercò di discutere gli avvenimenti con i suoi amici del partito tedesco, ma apprese velocemente che la parola «rivoluzione» doveva venire a contatto con un’autentica situazione rivoluzionaria per divenire un’espressione priva di senso.
I socialisti tedeschi erano convinti che queste cose potessero accadere solo in remoti paesi barbarici. Questo fu il primo shock da cui non si riprese mai. Il secondo arrivò nel 1914 e la condusse vicina al suicidio.
Naturalmente, il suo primo contatto con una vera rivoluzione le insegnò più cose, e migliori, che la disillusione e le note arti del disdegno e della sfiducia. Da essa provenne la sua intuizione della natura dell’azione politica, che giustamente Nettl definisce il suo più importante contributo alla teoria politica.
Il punto principale è che aveva appreso dai consigli degli operai rivoluzionari (i successivi soviet) che «la buona organizzazione non precede l’azione ma ne è il prodotto», che «l’organizzazione dell’azione rivoluzionaria può e deve essere appresa nella rivoluzione stessa, come si può imparare a nuotare nell’acqua», che le rivoluzioni non sono «fatte» da nessuno ma scoppiano improvvisamente, e che la spinta all’azione proviene sempre «dal basso». Una rivoluzione è «grande e forte fin quando la socialdemocrazia [a quell’epoca ancora il solo partito rivoluzionario] non la manda in rovina».
C’erano comunque due aspetti del preludio rivoluzionario del 1905 che le sfuggirono completamente. In primo luogo il fatto sorprendente che la rivoluzione era scoppiata non solo in un Paese arretrato e non industrializzato, ma in una terra dove non esisteva alcun forte movimento socialista con un sostegno di massa. E, in secondo luogo, il fatto altrettanto innegabile che la rivoluzione era stata la conseguenza della disfatta russa nella guerra russo-giapponese.
Erano dei fatti che Lenin non dimenticò mai e da cui trasse due conclusioni: che non fosse necessaria una grande organizzazione; un piccolo gruppo solidamente organizzato, con un capo che sapeva quello che voleva era sufficiente ad abbattere il potere una volta che l’autorità del vecchio regime fosse crollata. Le grandi organizzazioni rivoluzionarie erano solo ingombro. Inoltre, poiché le rivoluzioni non erano «fatte», ma erano il risultato di circostanze e eventi al di là del potere di chiunque, le guerre erano benvenute.
Quest’ultimo punto fu la causa del disaccordo di Rosa Luxemburg con Lenin durante la prima guerra mondiale; mentre il primo punto fu la causa delle critiche alla tattica leninista durante la rivoluzione del 1919. Infatti, Rosa Luxemburg rifiutava categoricamente, dall’inizio alla fine, di vedere nella guerra altro che il più terribile dei disastri, indipendentemente dal suo sbocco finale; il prezzo in vite umane, e soprattutto delle vite dei proletari, era comunque troppo alto.
Inoltre, sarebbe stato contrario al suo carattere considerare le rivoluzioni come l’esito vantaggioso della guerra e del massacro — qualcosa che non preoccupava minimamente Lenin. Per quanto riguardava l’organizzazione, Rosa Luxemburg non credeva in una vittoria in cui il popolo nel complesso non avesse una parte decisiva; in realtà credeva così poco nel mantenimento del potere ad ogni costo che temeva molto di più una rivoluzione fuorviata che una fallita» — questa era effettivamente la principale differenza tra lei e i bolscevichi.
Forse che gli eventi non hanno dimostrato che lei aveva ragione? Non è forse la storia dell’Unione Sovietica una lunga dimostrazione dei terribili poteri di una «rivoluzione fuorviata»? Non ha fatto il «collasso morale» che aveva previsto — senza aver potuto prevedere ovviamente la dichiarata criminalità del successore di Lenin — più danno alla causa rivoluzionaria, così come lei la intendeva, di «qualsiasi sconfitta politica (…) in una lotta aperta contro forze superiori e nella stringente necessiti della situazione storica»? Non è vero che Lenin era «completamente in errore» riguardo ai mezzi impiegati, che la sola via di salvezza era costituita dalla «scuola della vita pubblica in sé, dalla più illimitata e ampia democrazia e opinione pubblica», e che il terrore «demoralizzava» chiunque, proprio come distruggeva qualsiasi cosa?
Non doveva vivere abbastanza per vedere quanto avesse ragione e per assistere al terribile, e terribilmente rapido, deterioramento morale dei partiti comunisti, risultato diretto della rivoluzione russa, in tutto il mondo. Né poteva farci nulla Lenin, che — nonostante i suoi errori — aveva ancora in comune con quel «gruppo di pari» più di quanto avesse con chiunque altro.
Ciò divenne manifesto quando Paul Levi, il successore di Leo Jogiches a capo dello Spartakusbund, tre anni dopo la morte di Rosa Luxemburg, pubblicò le già citate osservazioni di Rosa Luxemburg sulla rivoluzione russa, redatte nel 1918 solo «per te», cioè senza intenzione di pubblicarle. Fu un momento di notevole imbarazzo per entrambi i partiti, russo e tedesco, e sarebbe perdonabile se Lenin avesse risposto seccamente e senza moderazione. Invece, scrisse: «Rispondiamo con una vecchia favola russa: un’aquila può spesso volare più basso di una gallina, ma questa non potrà mai volare più alto di un’aquila. Rosa Luxemburg, nonostante i suoi errori (…) era e rimane un’aquila».
Poi proseguì esigendo la pubblicazione integrale «della sua biografia e dell’edizione integrale delle sue opere», compresi gli «errori» e rimproverò aspramente i compagni tedeschi per la loro incredibile trascuratezza nell’assolvere questo compito. Tre anni più tardi i successori di Lenin decisero di «bolscevizzare» il Partito comunista tedesco, e perciò ordinarono un violento attacco all’intera eredità teorica di Rosa Luxemburg. Il compito fu accettato con gioia da un giovane membro del partito, Ruth Fischer, che era appena arrivata da Vienna. Fu lei a dire ai compagni tedeschi che Rosa Luxemburg e la sua influenza non erano «che sifilide».
La breccia era stata aperta, e da essa scaturì quella che Rosa Luxemburg avrebbe chiamato «un’altra specie zoologica». Non erano più necessari «agenti della borghesia» e «socialtraditori» per distruggere i pochi sopravvissuti di quel «gruppo di pari» e per seppellire nell’oblio ciò che rimaneva del loro spirito. Non c’è bisogno di dire che non fu mai pubblicata un’edizione completa dei suoi scritti. Dopo la seconda guerra mondiale, un’edizione in due volumi di saggi scelti, «con accurate annotazioni che mettevano in luce i suoi errori», apparve a Berlino Est, e fu seguita da «un’approfondita analisi del sistema luxemburghiano di errori» a cura di Fred Oelssner, che rapidamente «cadde in disgrazia perché divenne “troppo stalinista”». È certissimo che Lenin non aveva richiesto qualcosa del genere, quando sperava che la pubblicazione contribuisse «all’educazione di molte generazioni di comunisti».
Dopo la morte di Stalin, le cose cominciarono a cambiare ma non nella Germania dell’Est, dove, curiosamente, la revisione della storia stalinista prese la forma di un «culto di Bebel» (il solo a protestare contro questa nuova assurdità fu il povero vecchio Hermann Duncker, il sopravvissuto più noto del gruppo, che poteva ancora ricordare «il periodo più meraviglioso della mia vita quando da giovane conobbi e collaborai con Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Franz Mehring»).
I polacchi, comunque, benché la loro edizione di opere scelte del 1959 in due volumi «coincide parzialmente con quella tedesca», furono capaci di «mantenere intatta la sua reputazione liberandola dalla bara in cui era stata nascosta» fin dalla morte di Lenin e dopo il 1956 «un’inondazione di pubblicazioni in polacco» su questo tema si riversò sul mercato. Ci piacerebbe credere che sia ancora possibile sperare in un tardivo riconoscimento della sua figura e dei suoi atti, così come ci piacerebbe sperare che Rosa Luxemburg trovi finalmente il suo posto nella formazione degli scienziati politici nei Paesi occidentali.
Perché Nettl ha ragione: «Le sue idee vivono dovunque si insegni seriamente la storia delle idee politiche».
HANNA ARENDT
Tradotto da Alessandro Dal Lago in “Micromega”, 3, 1989, pp. 44-60
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