Con la scomparsa di Milva, sono in molti a perdere qualcosa. Oltre ai suoi cari ovviamente, e al suo pubblico che resiste numeroso con molte punte di entusiasmo verso questa donna bellissima e straordinaria che ha scandito mezzo secolo di storia collettiva, fino a personificarlo nella sua voce e nella sua vita. Da «pantera di Goro» nei primi anni Sessanta che dalle balere del Polesine approda a Sanremo e conquista tutti con la sua voce e la presenza aggressiva, alla diva internazionale, venerata in Europa perfino più di quanto lo sia in Italia.
E che non nasconde, mostrandone anzi l’orgoglio, il fatto che la sua maturazione artistica ha coinciso pienamente con quella intellettuale e politica. Bella di una bellezza assoluta con i suoi capelli fiammeggianti, corteggiata da una teoria di intellettuali e artisti da cui lei impara e rielabora prodigiosamente idee e tecniche e contenuti per il suo canto e la sua presenza di attrice.
Mancherà molto la sua presenza scenica, allenata e cresciuta fino a diventare idolo di nicchia proprio dentro il maggiore teatro italiano, il Piccolo di Milano, dove con Giorgio Strehler aveva conosciuto Brecht, i suoi testi e le canzoni dei suoi spettacoli, di cui in breve tempo era divenuta interprete assoluta, apprezzata in Italia e all’estero. Era impressionante assistere a un suo recital brechtiano e sentirla modulare, in perfetto tedesco, le note di Kurt Weill, a Berlino come a Colonia, mandando il pubblico letteralmente in visibilio.
Il successo, e l’eleganza dei suoi Armani neri, non le hanno impedito, anzi quasi la spingevano, a schierarsi politicamente e apertamente. Senza rinunciare ai minimi piaceri della vita, che amava condividere con gli altri. Incontrata a Parigi perché aveva voluto conoscere il giovane genio registico di Thierry Salmon (sempre alla ricerca di nuove forme artistiche lui come lei), scaldò l’atmosfera offrendo «un bicchiere di champagne per tutti» al caffè dello Chatelet proprio sotto il teatro.
Generosa per vizio, arrivò a pagare il conto di un intero tavolo, nel ristorante genovese della Lanterna (e sapeva tutto di don Gallo) solo perché c’era seduto qualcuno di «il manifesto». Aveva per il giornale una grande passione, espressa non solo con le sottoscrizioni, ma in particolare con una personale riconoscenza per Rossana Rossanda. Si erano conosciute al Piccolo, nel cui cda Rossana aveva seduto, e grazie a Strehler era cresciuta l’ammirazione per lei da parte di Milva. Che la esprimeva senza termini, come valore assoluto, anzi «un modello», come ci ha ripetuto più volte. E anche lei non dispiaceva a Rossana, in una onda emotiva e affettiva che passava forse, oltre a Brecht e Weill, anche attraverso Theodorakis e gli altri poeti musicali del nostro tempo votati alla libertà.
Milva li amava e cantava tutti, come era stato con Brecht nell’Opera da tre soldi al Piccolo con Strehler e a Berlino nei Sette peccati capitali. E la stessa cosa valeva per Fiorenzo Carpi, come per Battiato e Jannacci, Tenco e Morricone. E perfino Luciano Berio: nella sua Vera storia (su testo di Calvino, regia Scaparro) troneggiava sul palco della Scala nel suo trench chiaro stretto in vita, ambigua e inquieta.
Era un’artista davvero fuori del comune, all’apparenza tenera ma puntuta e provocatoria, sempre. Con due immagini che tornano contraddittorie alla memoria, e ne raccontano la grandezza: quando cantò Alexanderplatz davanti alla Porta di Brandeburgo, dopo la caduta del Muro, e con la stessa «naturalezza» portò a Canzonissima una sua personale versione di Bella ciao. Meravigliosa Milva.
GIANFRANCO CAPITTA
foto tratta da Wikipedia