A sbirciarla dall’alto, dalle foto riprese dai satelliti della NASA, pare una scheggia di legno così minuscola da sembrare debole, pronta per essere spazzata via da quel rigagnolo d’acqua tra due montagnette di sabbia. E’ una questione di prospettiva, naturalmente. Ma è anche una questione di altezza: a mano a mano che ci si avvicina, e da bambini accovacciati sull’immaginario micromondo si ritorna allo stato adulto in quel “mondo grande e terribile” di gramsciana memoria, si riprende contatto con la realtà e il Canale di Suez diventa riconoscibile, così come le sponde dell’Africa e dell’Arabia, e così pure quella scheggia di un legnetto sognato.
La storia ha per protagonisti: una grande nave cargo, una porta container; una tempesta di sabbia e ventidue metri di profondità. Quelli del Canale di Suez.
La protagonista principale del dramma economico si chiama Ever Given, batte bandiera panamense ed è una delle più grandi e lunghe che esistano al mondo. E’ alta come un palazzo di cinque piani (circa trentadue metri), e puoi correrle sopra per quasi mezzo chilometro, mentre è larga sessanta metri circa. Può trasportare fino a ventimila container, una specie di Titanic della marina mercantile.
Ma bisogna fare attenzione coi paragoni, perché potrebbero risultare impropri ed addirittura infelici: prima di finire per traverso nel Canale di Suez pochi giorni fa e bloccarlo, la Ever Given aveva avuto una disavventura simile il 9 febbraio del 2019. Stava navigando in preda a forti venti nei pressi del porto di Amburgo e finì addosso ad un traghetto. Nessuna grave conseguenza, ma da allora alla foce dell’Elba stanno molto attenti quando giganti simili arrivano in prossimità delle bocche del grande fiume germanico.
Ebbene, la storia della Ever Given, quella di questi giorni nel trafficatissimo Canale di Suez, è degna di nota per un motivo molto semplice: non è il racconto di una avventura tra flutti impetuosi, gorgogliare di onde e frangiflutti che le separano. E’ un quadro, anzi una istantanea di come l’economia capitalistica sia estremamente fragile e basti, oltre ad una possente pandemia, un mercantile (enorme) che si metta di traverso in uno stretto per far saltare affari miliardari e mandare in crisi di nervi grandi industriali petrodollari, aziende di navigazione, erari di Stato, intere compagnie che commerciano ogni giorno passando da Aden e uscendo nel Mediterraneo, facendo addirittura calare la ricchezza mondiale in punti percentuale!
Scioriniamo un po’ di cifre: cinque giorni, tanto è durato il blocco del Canale di Suez a causa dell’incagliamento della grande Ever Given. Considerato che ogni giorno transitano da lì il 12% del commercio mondiale, l’8% del gas naturale e ben un milione di barili di petrolio, moltiplicando tutto per cinque, la somma che fa il totale – come avrebbe detto Totò – arriva ad una flessione della crescita mondiale tra lo 0,2% e lo 0,4%. In cifre assolute, parliamo di una perdita per l’economia globale tra i sei e i dieci miliardi di dollari ogni ventiquattro ore. Ci perdono anche i gestori del canale, ovviamente, e non poco…: quattordici milioni di dollari al dì, praticamente il 2% del Prodotto Interno Lordo dell’Egitto. Tutte tasse di transito mancate.
Le navi rimaste bloccate quasi una settimana sono state quattrocento otto, per un totale di valore delle merci pari a 9,6 miliardi di dollari.
In sintesi, ecco cosa ti capita se una nave si incaglia nel Canale di Suez e non riesci a rimetterla in navigazione prima di cinque giorni. Fossimo vissuti nel fantastico mondo di “Star Wars” sarebbe bastato un tendere del piccolo braccio del maestro Yoda per sollevarla e raddrizzarla. Ma la Forza non è con noi in questo globo e nemmeno tutti i soldi dei grandi magnati dell’industria e del petrolio possono eguagliare i poteri dei Jedi e nemmeno trovare una soluzione che faccia loro perdere meno soldi di quanti ne impiegherebbero per sbloccare anzitempo la incresciosa situazione.
Come nelle favole di Esopo e di Fedro, questa favola vera ha una morale: racconta tutta la grande debolezza di un sistema economico che, fin dalla scoperta delle Americhe e dalle spedizioni successive ai viaggi di Cristoforo Colombo, ha cercato tutte le vie commerciali più brevi possibili per espandere il potere imperialista di potenze emergenti su scala mondiale come la Spagna, la Francia, il Portogallo e, naturalmente, la Signora dei Mari: l’Inghilterra. Intuite tutte le potenzialità del “nuovo mondo” trovato per caso nel 1492, dai confini ancora incerti sulle mappe che venivano abbozzate, la corsa alle nuove rotte è frenetica: il celebre “Trattato di Tordesillas” è la più plastica dimostrazione della prima vera spartizione di zone di influenza economica del e nel mondo.
Magellano prima ed Elcano poi completano l’impresa della circumnavigazione di un pianeta che è in piena espansione commerciale, nonostante i tempi di trasporto delle merci siano – se paragonati soprattutto alla modernità otto-novecentesca – tendenti all’eternità. Occorrono anni per arrivare dall’Olanda al Borneo andata e ritorno per portare tutte le novità speziali che valgono tanto quanto l’oro.
E’ per questo che a fine ‘800 si cercano soluzioni che abbrevino le distanze, che permettano ai commerci di essere ancora più redditizi, perché il tempo, si sa, è denaro. Così Suez, Panama, grandi opere ingegneristiche, si sono aggiunte alle strette vie marinare solcate per secoli da navi a vela, piroscafi a vapore fino alle più moderne propulsioni: dallo Stretto di Malacca a Port Said, da quello di Hormuz fino alla ricerca del mitico “Passaggio a nord-ovest” conquistato soltanto nel 1906 da Amundsen.
In quest’epoca che tutti noi riteniamo così moderna, così veloce, dove le transazioni economiche si mettono in pratica con un click da qualunque computer, due decine e poco più di metri d’acqua possono non bastare ad un grande cargo per superare una tempesta che viene dal deserto e possono seriamente impensierire i grandi armatori che si sono messi subito all’opera per limitare i danni ai loro profitti. Limitarli, perché eliminarli era ed è oggettivamente impossibile: l’unica via alternativa per mare dal Mediterraneo all’Asia rimane il Capo di Buona Speranza, il mito antico dell’Olandese Volante, qualche tabella economica che parla di un raddoppio dei costi per ogni nave impiegata nelle spedizioni. Maersk e MSC sono state le prime a convertire le rotte: spazio e tempo non vanno sprecati nella giungla della concorrenza.
Nel villaggio globalizzato tutto si tiene stretto, anzi strettissimo. La pandemia non dà tregua, costringe a ripensare radicalmente lo sviluppo antisociale di un capitalismo liberista spinto all’eccesso fino a soli due anni fa. Il freno imposto dal Covid-19 è, da questo punto di vista, una occasione per riconsiderare il tutto: economisti e grandi affaristi lo stanno già facendo. Sarebbe bene che a non affogare in poche braccia di mare fosse soprattutto una critica senza se e senza ma della globalizzazione che eventi naturali pandemici, comprese le grandi navi spinte dal vento contro le pareti di un grande canale di comunicazione e di espansione economica, dimostrano essere molto più frangibile e destrutturabile rispetto a quanto si pensi.
A volte sono proprio i costrutti mentali a formulare scenari mitici, moloch imperturbabili, grandi colonne d’Ercole insuperabili: blocchi psico-sociali, per convincersi dell’impossibilità di una rivolta, della necessità del cambiamento locale e globale. I giganti hanno piedi di argilla, ma se si guarda sempre in alto, al volto mostruoso del titano, non se ne vedrà mai l’inconsistenza anche di quel terreno su cui sembra sicuro di poter camminare.
MARCO SFERINI
30 marzo 2021
foto: screenshot