Da quando è entrato in carica il governo Draghi la parola «pensioni» è quasi un tabù. Il presidente del consiglio non l’ha nominata nei suoi discorsi programmatici in parlamento e nelle conferenza stampa. Il ministro competente – Andrea Orlando – ha sempre svicolato l’argomento motivando che «le pensioni non sono una priorità».
Se è vero che la crisi pandemica ha stravolto l’agenda economica, da qui a qualche mese il governo dovrà prendere una decisione molto importante. A fine anno scade la «sperimentazione triennale di Quota 100» e – legge vigente alla mano – senza interventi tornerà pari pari la legge Fornero con uno scalone di quasi sei anni per chi il primo gennaio 2022 avrebbe i requisiti per andare in pensione con Quota 100: da 62 a 68 anni di età. Il tutto partendo da due dati di fatto ormai acquisiti: Quota 100 è stata un flop a causa di criteri – 38 anni di contributi – che hanno favorito solo alcune categorie – lavoratori pubblici in primis – con un risparmio certificato di 6,5 miliardi rispetto ai costi messi a bilancio dal governo M5s-Lega del Conte uno.
La ministra Nunzia Catalfo aveva predisposto una tabella di marcia precisa con i sindacati: entro giugno contava di abbozzare una proposta di riforma organica usando il lavoro delle due commissioni tecniche istituite a gennaio. Si tratta della commissione sulla separazione fra previdenza e assistenza – storica battaglia dei sindacati – e quella sui lavori gravosi. Entrambe hanno tenuto una sola riunione – peraltro proficua, a detta di tutte le parti – e non sono state riconvocate.
Dalla prima commissione si attende una parola definitiva rispetto ad un dato costantemente sovrastimato negli ultimi decenni: il bilancio previdenziale dell’Inps di Pasquale Tridico contiene molte voci che non riguardano le pensioni bensì spese assistenziali che distorcono il rapporto spesa/Pil che nel 2020 ha raggiunto il 17% mentre si stima che il vero rapporto sia almeno 4 punti in meno (circa il 12%), in linea con la spesa media europea.
La seconda commissione invece sta lavorando sulle differenze di aspettativa di vita delle diverse mansioni lavorative – un operaio vive in media tre anni in meno di un dirigente – e cercherà di preparare una sorta di schema a tre cerchi concentrici a cui legare sconti pensionistici o aumenti dell’assegno per le categorie più in difficoltà, partendo dai lavori manuali per passare alle attività gravose e finire a quelle usuranti. Nelle settimane scorse i sindacati hanno chiesto al ministro Orlando di essere convocati «per riaprire il confronto sulla previdenza». L’irritazione per la mancata convocazione sta montando e non si esclude che Cgil, Cisl e Uil si preparino a mobilitarsi nei prossimi giorni.
La posta in gioco è infatti molto alta. In un momento in cui non esistono problemi di reperimento di risorse e con la pandemia che nel biennio ha abbassato aspettativa di vita e avvicinato il picco previsto della gobba della spesa previdenziale – stimato nel 2040 – i sindacati puntano ad una riforma organica della previdenza che metta da parte le rigidità della legge Fornero e apra a flessibilità in uscita – dai 62 anni di età con penalizzazioni – e pensione di garanzia per giovani e precari.
Il rischio invece è che il governo Draghi pensi semplicemente a piccoli aggiustamenti tornando di fatto alla legge Fornero allargando solamente l’uso dell’Ape – l’anticipazione della pensione per le categorie di lavoratori con mansioni gravose e usuranti – e di Opzione donna – la norma che consente alle donne di andare in pensione con 58 anni e 35 di contributi ma ricalcolo contributivo completo e taglio medio del 30% dell’assegno.
Vedremo se il ministro Andrea Orlando avrà il coraggio di intraprendere una strada di riforma organica che finalmente metta fine all’austerità previdenziale dell’epoca Fornero.
MASSIMO FRANCHI
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