Il camaleontismo politico è una caratteristica oramai acquisita dal M5S: una attitudine che gli riesce meglio rispetto ad altre forze politiche, perché privo di una struttura ideologica, di un collocamento definito e definitivo. Ma il premio, in quanto a trasformismi, va comunque sempre a chi invece sostiene di avere una precisa appartenenza ad un’area della geopolitica italiana (ed internazionale), mentre da sinistra balza a destra, da destra si allea con una sinistra presuntuosamente e utilitaristicamente definita tale, e a chi con una spaventosa disinvoltura da mattina a sera passa dal sovranismo più inveterato all’europeismo più convinto.
Ad un anno esatto dall’inizio formale della pandemia, quando venne scoperto il primo caso a Codogno, nemmeno il Covid-19 ha sviluppato così tante pericolose varianti quante ne ha conosciute in seno al Parlamento la politica italiana. I tanto vituperati “partiti“, refrain della prima fase di nascita e crescita del Movimento 5 Stelle, l’attacco alla “casta” detentrice del potere politico e rappresentante quello economico e finanziario, così come i “vaffanculo” di Grillo, quelli coram populo, declamati in gite in canotto sulle teste di folle oceaniche in piazze debordanti di urla contro un potere inviso per corruzione, affarismo, proprietà individuale di beni comuni sottratti per decenni ad una vera gestione pubblica.
Fino ad un lustro fa era almeno possibile affermare che il Movimento 5 Stelle, pur essendo una delle tre destre di questo disgraziato Paese, era stata una intuizione del tutto nuova che disorientava elettori e politicanti di nuovo e vecchio stampo: dall’irriverenza del comico alla visionaria e pericolosa ipotesi di superamento della democrazia rappresentativa con una democrazia digitalizzata di Casaleggio, il passo era breve per illudere milioni di ex comunisti e gente di sinistra che una speranza rivoluzionaria c’era ancora e che era diretta ora non tanto contro il capitalismo ma contro il malaffare della politica giornaliera.
E forse non si trattava nemmeno di una mera illusione: un progetto c’era per davvero, quant’anche non si proponesse di sovvertire le vere ragioni, le cause primordiali e originarie del malessere sociale diffuso, del disagio di milioni di lavoratori e precari, di indigenti di ogni sorta. In mancanza di una nuova sinistra di alternativa, di una nuova visione d’insieme che mettesse a posto le tessere sparpagliate di un puzzle senza soggetto, il Movimento 5 Stelle ha riempito il vuoto lasciato dal progressismo socialisteggiante in Italia ed è diventato la variante populista del benefico virus della rabbia popolare.
Per certi versi, va riconosciuto anche questo, ha evitato che si ingrossassero le fila di movimenti neofascisti, di sovranisti ante litteram, ma non ha poi fatto seguire a questa fisionomia tratteggiata e poi definita meglio col passare degli anni all’opposizione dei governi di centrodestra, tecnici e centrosinistra che si succedevano, una parola chiara sull’antifascismo. Impossibile o altamente improbabile poterlo fare quando il tuo elettorato è per un terzo di sinistra, per un terzo incolore e per un altro terzo di destra.
L’eterogenesi dei fini di Wundt si è impadronita del movimento pentastellato, lo avvolto con il manto di una nemesi che oggi raggiunge il suo apice e fa dire a molti che l’incipiente fine della creatura di Grillo e Casaleggio è inesorabilmente iniziata. Difficile dare torto a chi lo afferma oggi, ma anche troppo facile dirlo oggi da profeta in patria, dopo aver assistito al logorio da vita moderna di una forza politica che ha provato ogni tentativo possibile per salvarsi dalla catastrofe, rappresentata dall’esaurimento dei colori mutevoli di un camaleontismo ormai inutile. Il trucco è stato scoperto e il M5S non ha più carte nel mazzo da giocare.
L’errore primordiale è stato quello di pensarsi e di proporsi platealmente come piede di porco della politica italiana per mutare la stagnante crisi economica della società. Ci vuole coraggio per rappresentarsi come immacolati, imperturbabili, incorruttibili e, per questo, impermeabili ad ogni dialogo con altri partiti, aprioristicamente estranei ad ogni alleanza, destinati a governare in assoluta e imprescindibile solitudine. Nulla di tutto questo si è realizzato nel momento in cui, dai seggi dell’opposizione, il M5S ha scavalcato elettoralmente il crinale ed è passato alla possibilità di sedere a Palazzo Chigi.
Lì sono cominciati i guai, dettati dalla necessità del compromesso che soltanto fino ad un certo punto è potuto rimanere tale: il salto di specie (negativo) alla compromissione è stato tanto breve quanto inversamente proporzionale in quanto a dolore. Il contratto con la Lega e poi, mutatis mutandis, o tempora o mores che dir si voglia, l’abbraccio con il settore opposto: PD, LeU e Italia Viva. Pareva essersi stabilizzata una stagione nuova, pur in apertissima contraddizione con i cardini dei dettami fondanti e fondatori del movimento: dal solitario viaggio della barca della rivoluzione dell'”onestà” nei meandri della politica di palazzo al quadripartito giallo-rosso (o rosa…). Dimezzamento dei consensi elettorali e la simultanea fortuna di aver scoperto in Conte un leader inaspettato, un politico nascosto dietro il professore universitario.
Un uomo dotato di una capacità di mediazione non comune, flemmatico, popolare perché docile nel disporsi al dialogo con la gente, lontano dal politichese, divenuto eroe della “sinistra” moderata di governo dopo che mise una mano sulla spalla di Salvini e lo svergognò davanti ad un Parlamento che pareva essere tornato sé stesso dopo la parentesi antiliberare, illibertaria e securitaria del connubio tra populismo e sovranismo. La compromissione sembrava aver lasciato il posto nuovamente alla decenza del compromesso.
La pandemia ha rotto questa ritrovata stabilità politica per i Cinquestelle: ha messo a dura prova un governo che stava recuperando la fiducia di molti strati popolari e riducendo all’angolo l’arroganza delle destre più becere. Con risultati insufficienti, troppe accondiscendenze nei confronti del padronato, ma anche uno sguardo non trascurabile alle esigenze dei lavoratori e dei più deboli. L’insofferenza renziana è comprensibile: una forza liberista come Italia Viva soffocava in un esecutivo non certamente anticapitalista e comunista, ma indubbiamente inclinato di più sul piano dei diritti sociali (ed anche civili) rispetto ai suoi predecessori.
Lo stress pandemico e le spinte di riorganizzazione capitalistica nel mondo della rappresentanza politica, hanno messo fine all’ultima possibilità per il M5S di risalire la china di un declino inarrestabile. Uscito Giuseppe Conte da Palazzo Chigi, entrato Mario Draghi, le porte dell’inferno si sono spalancate per chi, del tutto legittimamente, aveva iniziato a fare politica da “cittadino“, da “uno” che “vale uno“; un vero e proprio shock per chi si era pensato come alternativo a tutto e tutti e si è ritrovato a decidere se votare o meno la fiducia al banchiere italiano più famoso al mondo.
Ed infine, l’ultimo schiaffo, per chi ha creduto veramente di aver fatto parte di uno stravolgimento dello status quo, di aver portato il suo contributo ad una nuova stagione sociale e politica di una Italia fuoriuscita faticosamente (ma poi per davvero?) dal ventennio berlusconiano e piombata nelle maglie fitte della Troika europea e dei tanti tecnicismi messi in atto per sostenere, con la fandonia del debito pubblico causa di tutti i mali della nazione, tutta l’insufficienza e l’azzardo speculativo del capitalismo italiano. L’ultimo schiaffo, appunto: l’espulsione decretata dal reggente Crimi per i ribelli che hanno osato dire NO al governo Draghi.
Chi si ribella è sempre più simpatico di chi obbedisce. L’intransigenza di una reggenza ormai trapassata anche dal voto sulla “piattaforma Rousseau“, è patetica: chi si pone all’opposto dell’ispirazione istillata dai comandamenti grillini in quel popolo delle stelle che è precipitato nelle stalle, oggi tenta di mettere alla porta chi prova a rimanere fedele a sé stesso, ad una coerenza incondivisibile sul piano delle proposte politiche e del cammino fatto, ma pur sempre più aderente all’originale rispetto ai camaleonti che sono pronti a qualunque svolta nel nome di una sopravvivenza che è accanimento terapeutico, vero e proprio.
E’ l’ultimo inganno del ricorso alle ragioni della pragmaticità degli eventi, che sfociano nella più ingenerosa compromissione che si sia potuta leggere nella storia del Movimento 5 Stelle. Quando dieci anni fa scrivevo che, prima o poi, i grillini avrebbero dovuto fare i conti con il muro di gomma della politica istituzionalizzata, creando le condizioni per venire a patti con essa e per convincerne il proprio popolo in fermento, nemmeno io avrei creduto e potuto immaginare che avrebbero finito per stare in un governo con Forza Italia e a guida Mario Draghi. Anche la fantascientificità politica ha dei limiti. Sarebbe stato più semplice comprendere l’infinito dell’Universo piuttosto che un mostro di esecutivo come quello appena nato.
Ma una cosa pareva sicura: se un partito, un movimento, una qualunque forma politica aggregante e strutturata si propone come forza rivoluzionaria tra il popolo e si prefigge di cambiare questa società solo ed esclusivamente attraverso il parlamentarismo, finisce per rincretinirsi da subito e credere che sia veramente possibile. E’ una lezione soprattutto per noi comunisti: una rilettura di quell’ammonimento che Engels propose in “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania” (scritto nel biennio 1851-1852) e che dovremmo tenere ben presente, per non ridurre la nostra “differenza” ed “esclusività” al solo ambito istituzionale, ma riconducendola soprattutto al sociale, al confronto con tutte le altre dinamiche che si muovono nella quotidianità dei rapporti di forza tra le classi.
Scriveva Marx in merito, ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte“: «…e dovevano essere colpiti da quella particolare malattia che a partire dal 1848 ha infierito su tutto il continente, il “cretinismo parlamentare”, malattia che relega quelli che ne sono colpiti in un mondo immaginario e toglie loro ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esteriore».
Specificava quasi enciclopedicamente Engels: «Cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri…».
E dopo queste due citazioni, ogni altra considerazione pare veramente iterativo, tedioso e, quindi, inutile.
MARCO SFERINI
20 febbraio 2021
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