E’ giusto che un sindacalista esponga i problemi che sono alla base del disagio sociale, rivendicando i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici in un quadro di proposte pratiche che la politica istituzionale metta in primo piano per riformare ciò che tende ad acuire la forbice delle diseguaglianze. Fin qui niente di strano o di straordinario. Ma sorprende un poco (eufemisticamente parlando) che Maurizio Landini si appelli a Mario Draghi per «fare uscire dalla precarietà il mondo del lavoro».
E’ ovvio che non possa appellarsi a Fico, a Casellati o Mattarella per una richiesta di questo tipo: deve rivolgersi al futuro Presidente del Consiglio. Ma è altrettanto evidente che sarebbe più facile avere ascolto dalle altre cariche dello Stato, in tal senso, piuttosto che dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea, che è l’esatta antitesi di un recettore di linee guida sociali per una politica di intervento sul lavoro che guardi alla grande massa di occupati piuttosto che alla ristretta cerchia di imprenditori.
Purtroppo non finisce qui e Landini si spinge oltre, in giudizi di merito: «Sarebbe un suicidio politico del nostro Paese non saper cogliere e non saper utilizzare la sua competenza e la sua autorevolezza per ridisegnare il futuro dell’Italia facendo quelle riforme che rinviamo da anni».
Qui siamo oltre lo stupore, entriamo proprio nel campo dell’imponderabile. Se un ex Segretario nazionale dei metalmeccanici, oggi Segretario generale della CGIL, ritiene Mario Draghi un autorevole e competente esponente politico, capace di introdurre riforme tali da rivoluzionare il mondo del lavoro, è difficile poter dire se si tratta di mera ingenuità o se invece il sindacato stia entrando, come tante altre forze rappresentative, nella schiera di coloro che non vedono alternative, che hanno smesso di credere nelle alternative e che oggi scorgono in Draghi la punta più avanzata del progressismo.
Persino il giornalista de “la Repubblica“, nel fare la prima domanda a Landini, si mostra perplesso davanti a queste affermazioni e prese di posizioni ed inizia con un: «Davvero pensa che un uomo come Draghi, ex banchiere della BCE ma anche della banca d’affari Goldman Sachs, possa avere la ricetta per chiudere la lunga stagione del lavoro precario in Italia?». Non è una domanda che deve intendersi fondata sull’incertezza sulle capacità di Draghi, ma sul suo ruolo veramente “di classe“. Se l’avesse fatta un giornale comunista, si sarebbe potuta porre nell’incipit più o meno così: «Come si può ritenere che un esponente di spicco del grande capitale internazionale, della grande finanza, dalla BCE a Goldman Sachs, possa ad un tratto sposare il punto di vista opposto, quello che ridimensiona i privilegi padronali e tutela la controparte economica fatta di salari, pensioni e diritti da stato-sociale?».
Landini risponde energicamente affermando che ci sono i 300 miliardi di euro del Recovery Fund in ballo, aggiungendo che «proprio il professor Draghi ha parlato di ricostruzione dell’unità del Paese. Io aggiungo di ricostruzione sociale del Paese. Dobbiamo fare in modo che chi lavora per vivere possa farlo nella dignità e non nella povertà. Deve essere la priorità». Ma certo che deve essere la priorità, quella che il prossimo Presidente del Consiglio porrà anche in cima all’agenda di governo con belle parole, con il richiamo alla necessità del ricorso alla collaborazione interclassista (lui non scriverà ovviamente così…), mettendo da parte i contrasti tra le parti nel nome dell’emergenza pandemica ed economica.
Landini è un sindacalista esperto, che ha difeso i diritti dei lavoratori con grande energia nel passato. Per questo amareggia molto leggere parole che vanno non nella direzione di una critica – anche propositiva – verso il futuro assetto di governo, ma che affidano la sorte del mondo del lavoro alla buona creanza di un tecnico esperto, di un grande economista, oltremodo liberale e liberista. Qui non siamo nemmeno innanzi ad un centrosinistra prodiano, compromesso tra forze comuniste, socialdemocratiche, liberali e popolari. Non c’è speranza di poter convincere un banchiere come Draghi a disporre i fondi del Recovery per un rafforzamento dell’intero apparato pubblico in favore degli interessi sociali più urgenti.
Il governo Draghi confermerà, nel migliore dei casi, alcune delle riforme fatte dal Conte bis e affiancherà a queste urgenti interventi nella ristrutturazione della stabilità economica delle imprese, coprendo le falle che si sono aperte e lasciando al palo le protezioni e le garanzie per una stabilizzazione dei contratti. La fine della precarietà viene chiesta a chi la precarietà l’ha inventata, promossa, sostenuta e imposta tanto dal più remoto posto di lavoro fino all’intera società, facendone un esempio di direzione economica da parte degli Stati. L’unica tutela possibile per i profitti crescenti dell’imprenditoria che non ha investito un centesimo sulla sicurezza, che ha approfittato degli aiuti di Stato per accrescere i propri capitali, per fagocitare interi settori pubblici: primo fra tutti quello della sanità.
Le privatizzazioni viaggiano di pari passo con la precarietà del lavoro. Che questo sfugga oggi al leader del più grande sindacato italiano, che si affida alla determinazione di intenti del Presidente della Repubblica nel richiedere un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica» e, pertanto, si dice anche sicuro che la presenza dei sovranisti della Lega non sarà poi così dirimente quanto il programma che Draghi presenterà al Paese e al Parlamento, è sconcertante.
Dice bene Landini quando chiede il blocco dei licenziamenti fino alla fine della pandemia, e non soltanto per le categorie lavorative a rischio, ma per tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori. Compito del sindacalista è lanciare mille per ottenere cento; ma quando questo risulta oggettivamente impossibile, sarebbe più giusto organizzare fin da subito una opposizione sociale, preparando l’intero sindacato ad una lotta che faccia anche riprendere coscienza alle forze politiche di sinistra che sono incantate dal salvatore della patria, dal risolutore di ogni problema.
La risolutezza di Draghi in merito ai settori di primo intervento economico, nella riorganizzazione del mondo del lavoro, della pubblica amministrazione e degli altri settori pubblici (scuola e sanità ovviamente compresi) si farà ben presto sentire con provvedimenti che metteranno mano alla logica del compromesso sociale del precedente governo. Il campo internazionale muta parzialmente orizzonte geopolitico: europeismo e atlantismo che – rassicura Draghi – non saranno in contrasto fra loro ma dovranno complementarsi nei successivi sviluppi della nuova politica italiana.
Le parole di Landini, dunque, risultano ancora più cedevoli se inserite in questa rapida involuzione degli eventi sociali, economici ed istituzionali. Per questo vanno stigmatizzate, ma non per questo vanno di contro assunte posizioni pregiudiziali verso il sindacato che rimane un corpo intermedio necessario per il dialogo anche a sinistra, per la proposta politica e per la definizione di lotte comuni che vedano prima di tutto nei lavoratori i protagonisti di una presa di coscienza che corregga eventuali inciampi dei propri segretari di categoria o anche del proprio Segretario nazionale. Come una rondine non fa primavera, così una intervista di Landini – si spera – non sia monoliticamente assunta come il verbo da seguire senza alcun accento critico.
MARCO SFERINI
9 febbraio 2021
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