Siamo sicuri che la traduzione nel reale, se non migliore diciamo almeno sufficientemente decente, del concetto di “democrazia parlamentare” sia attribuibile a quanto sta avvenendo in queste ore per garantire al governo i numeri necessari per rimanere al timone del Paese?
E’ una domanda lecita, visto che i commentatori delle vicende politiche italiane si affannano a ricordare che, tutto sommato, scandalo ve ne è ben poco nell’operazione della ricerca dei “responsabili” (o “costruttori” che dir si voglia), visto che le maggioranze governative si formano in Parlamento e che, per l’appunto, Conte rimetterà il risolversi della crisi proprio alla decisione delle Camere, con un voto di fiducia.
Tutto giusto, persino troppo lineare, visto il caos creatosi dopo lo strappo renziano e le dimissioni delle ministre Bellanova e Bonetti, nonché del sottosegretario Scalfarotto da Palazzo Chigi. Ma, se il percorso appare rispettoso di tempi e modi della dialettica tra le istituzioni e dei rapporti formali anche con la Presidenza della Repubblica, rimangono una serie di fratture aperte che difficilmente saranno sanabili con la costituzione di un nuovo gruppo parlamentare raffazzonato e inventato alla bisogna.
Fra questi problemi, spicca per eccellenza la collocazione di Italia Viva, in un contesto di una velocità degli eventi che si susseguono e che, per il momento, non permettono di conoscere quale sarà la sorte del Governo Conte bis: sopravviverà alla tempesta oppure la barca si sfracellerà sugli scogli di una crisi che ha radici tanto nella rappresentanza politica delle s-ragioni economiche confindustriali e padronali quanto nell’egocentrismo di chi era abituato a fare il Presidente del Consiglio e si è ritrovato ad essere un “cespuglio” residuale?
Intanto, va osservato che, se Conte e il governo dovessero superare la prova del Senato, quella che oggettivamente rappresenta l’ostacolo vero e proprio da superare per via degli esigui numeri a sostegno dell’esecutivo, anche i mercati che prima puntavano su Italia Viva e su Renzi per squadernare l’agenda di governo in merito alla distribuzione dei 222 miliardi del Recovery fund finirebbero per abbandonare il rottamatore al suo destino e puntare magari sulle nuove forze centriste a sostegno dell'”avvocato del popolo“.
Poco cambierebbe, infatti, sul fronte del vero mondo del lavoro, quello fatto proprio dai lavoratori, dai precari, dai moderni schiavi del terzo millennio: giallo-verde prima o giallo-rosso (o rosa) poi, non sono state rimosse le enormi contraddizioni che gravano – soprattutto con la crisi pandemica – sul futuro di milioni di sfruttati, sebbene vada riconosciuto all’esecutivo ancora in carica di aver arginato le esagitate pretese di Confindustria sulla fine della proroga allo stop dei licenziamenti.
Il termine ultimo del 31 marzo si avvicina minacciosamente, mentre il Covid-19 aggredisce senza sosta il Paese e costringe i più poveri e disagiati a indebitarsi. Il tutto senza una serie di misure che invece avrebbero potuto persino permettere di abbandonare ogni alibi pretestuoso sull’utilizzo del MES: una tassazione patrimoniale sarebbe all’uopo servita e avrebbe tolto veramente molto poco ai grandi privilegi delle classi dominanti.
Ma il governo Conte bis, anche se scevro dall’egemonia sovranista e antieuropeista, è comunque rimasto liberista pur avendo aggiunto qualche tratto sociale alle sue politiche con l’ingresso delle forze della sinistra moderata. Si tratta però di pennellate di un rosso molto pallido su un giallo intenso, che sfuma nell’arancione di un PD centrista, completamente asservito alla logica del mercato e che, per mantenere in piedi l’alleanza (e magari replicarla nei territori, dove non c’è speranza di battere le destre se non associandosi ad un destra terza), è stato disposto pure a votare la riduzione dei parlamentari creando un vulnus non da poco negli equilibri già abbastanza precari della claudicante democrazia italiana.
Italia Viva ha indubbiamente alleggerito la maggioranza di governo da una zavorra ultraliberista, ma la compensazione che pare arriverà non ha un tratto distintivo particolarmente dedito al sociale: si rimesta nel “centro democratico“, nel sopravvissuto UDC di Cesa, nel PSI di Nencini e persino tra senatori di Forza Italia scontenti di non si sa bene cosa. La crisi assume veramente dei tratti parossistici che, per chi ha un minimo di affezione nei confronti delle istituzioni repubblicane, vuol dire far emergere un rigurgito acido di insofferenza quando si ascoltano i commenti sulla “parlamentarizzazione” di un percorso che, a memoria, è stato intrapreso a suo tempo solo da Romano Prodi.
Ma dare la palla al Parlamento vuol dire fare esattamente il contrario di ciò che sta avvenendo: la nuova maggioranza la si deve trovare nel dibattito che viene fuori dalle Camere dopo le comunicazioni del Presidente del Consiglio. La captatio benevolentiae con cui si accarezzano senatori e deputati prima ancora dell’arrivo in aula può anche essere frutto dei meccanismi dettati dai regolamenti parlamentari: è vero, al Senato non è possibile costituire una nuova maggioranza senza un nuovo gruppo parlamentare.
Lo dicono i numeri. Si tratta di tecnicismi che hanno un profondo valore politico. Ma anche questi finiscono con il sembrare, almeno alla maggior parte di una popolazione sfranta dalle restrizioni pandemiche e dalla continua rincorsa del virus con i cromatismi che si alternano senza sosta, dei meri garbugli dietro cui stanno interessi che si incontrano nella disperazione della probabile fine di una legislatura.
Affermarlo non significa dare adito ad ipotesi, costruire metafore e allegorie per descrivere una impietosa situazione creatasi, apparentemente, senza una ragione precisa. Affermarlo è quasi istintivo, perché è del tutto evidente che la sopravvivenza del governo è indubbiamente legata alla nobile propensione di molti deputati e molti senatori nel divenire quei “costruttori” di buone azioni richiamate dal Presidente della Repubblica, ma soprattutto dovrà molto di più al timore che cambino i rapporti di forza politici, oltre ai numeri di chi siederà nel prossimo Parlamento.
La demagogia pentastellata sull’enormità della rappresentanza istituzionale ha generato quel taglio delle Camere che non è un servizio alla democrazia: col passare del tempo, così come è avvenuto per il Titolo V, ci si renderà conto che i territori rimarranno privi di un altro elemento essenziale di collegamento con le attività dello Stato e non vi sarà alcuna compensazione in termini di alleggerimento dei “costi” della democrazia… Un bluff populista che poteva essere smascherato con un voto contrario. In questo caso il PD avrebbe potuto fare la differenza. Così non è stato.
Intanto crisi pandemica e crisi politica si sommano e il totale non promette davvero niente, ma proprio niente di buono…
MARCO SFERINI
15 gennaio 2021
foto tratta da Wikipedia