La “didattica a distanza” avrebbe suscitato probabilmente orrore ad Aristotele, ai peripatetici in generale e forse anche ad Epicuro e al suo “giardino“, perché l’acquisizione del sapere è immediatezza mutuata dalla interpersonalità, dai rapporti diretti tra docente e studente e ogni filtro che vi si frappone pregiudica in qualche modo una certa purezza e schiettezza comunicativa. In sostanza, si va mortificando quella empatia (o anche antipatia) che si crea nella naturalità dei rapporti umani e che non è meno importante di una memorizzazione di mere date storiche piuttosto che uno studio approfondito della linearità contraddittoria – eppure così logica – della cronologia della storia universale.
Per questo, prima di tutto, la prima sconfitta che la didattica a distanza assegna al mondo della scuola al tempo della pandemia è la sospensione di questa comunanza di sguardi, di intuizioni e di toni della voce che rilasciano direttamente i concetti nella loro essenza e che non sono mediati da microfoni, da amplificatori della voce che la mortificano e la fanno venire meno proprio nel momento in cui sono necessari per farla sentire meglio.
Potrebbe apparire un paradosso, mentre si tratta di un meccanismo indotto dai mezzi utilizzati, indubbiamente dalla necessità che deve diventare virtù ma che non risolve il problema; anzi, rischia di esacerbarlo col passare del tempo e fare della scuola non in presenza un modello alternativo, un alibi da perseguire anche nel futuro quando il Covid-19 sarà un ricordo e magari si riterrà opportuno adottare nuovi metodi di insegnamento. Chissà, magari anche per il solo, squallido motivo di risparmiare in nuove aule, nella sistemazione di quelle esistenti e, quindi, nell’investire maggiormente denaro pubblico in un pilastro necessario per la vita sociale, per la comunità, per ogni essere pensante.
Fantascienza per il momento. E meno male. Perché la pandemia, al pari delle guerre, sta tirando fuori davvero il peggio dagli esseri umani, dalla loro espressione politica, dalla loro modesta attenzione per i particolari, mentre la superficialità degli eventi, la falsità delle illazioni diventa strutturale e il “sentito dire” assume le fattezze di un paradigma inossidabile, per cui più dell’evidenza dei fatti vale la presupposizione, l’arroganza di una ignoranza che pretende di vedere molto più lontano di una oggettività che deve fare parte di qualche necessario “complotto” per distarci dalla paura ossessiva (e giustificata in larga parte) del coronavirus dilagante.
Dobbiamo avere un nemico da combattere per poter sopravvivere alla costante quotidiana ipocondria che scavalca i confini di qualunque animo e di qualunque mente: persino di coloro che si sono sempre detti certi di interpretare una razionalità che escludeva a priori qualunque timore frutto di fobie, nevrosi e ossessioni recondite.
In questo scenario penoso, patetico e anche un po’ inquietante, solleva pensare che i giovani siano sufficientemente anarchici dall’escludere qualunque ipotesi di complotto mondiale da parte di satanisti bevitori di sangue di bambini alla base del ricorso della didattica a distanza. Almeno fino a questo scempio della mente non siamo ancora arrivati. E’ probabile che qualche depensante tenti di farsi largo e diffondere queste fantasticherie, ma dovrebbe essere sempre l’imponenza dell’evidenza a smentire prima di subito castronerie simili.
E’ vero che il biennio pandemico sta penalizzando sul piano culturale, sociale e psicologico una generazione di studenti. E’ un problema che non solo i governi ma la società intera dovrà prendere in carico, gestendolo sotto tutti i punti di vista, da molteplici latitudini della quotidianità e fare in modo che sia prima di tutto abolito il tremendo concetto di “normalità” dietro al quale si nascondo i primordiali pregiudizi e i giustificazionismi più malsani per riportare l’orologio dell’attualità di questa storia epidemica al 2019, quando il livello di coscienza critica era confinato all’accettazione dell’imperturbabilità delle vite di tutti noi.
Lo schema del “pensiero unico“, dettato dalla natura stessa del capitalismo, è stato incrinato dal fattore pandemico che ha dimostrato, senza oramai alcuna ombra di dubbio, che nessuno è sul limitare della storia e che l’umanità intera può considerare possibile ciò che era stata abituata a considerare altamente improbabile e magari soltanto visibile, in ipotesi, attraverso fantascientifici film ripresi da racconti altrettanto fantastici sul catastrofismo che si può abbattere sul pianeta, rimescolando le carte tanto dell’economia globale quanto delle geopolitiche più specificamente locali.
La scuola pubblica, indebolita da una pesante intromissione del privato nelle logiche di gestione tanto amministrative quanto dei programmi ministeriali per l’insegnamento, è stata trasformata negli ultimi decenni in una variabile dipendente dalle esigenze del mercato: con la tanto sbandierata “alternanza scuola-lavoro“, con la burocratizzata funzione dei presidi, con una regionalizzazione della dirigenza istituzionale che ha svilito l’unità sociale del sapere, la condivisione collettiva nazionale di un punto di riferimento per la formazione dell’individuo e del cittadino.
La pandemia si è aggiunta ad una serie di problemi vissuti da una scuola della Repubblica precaria e riqualificabile soltanto seguendo due riforme sostanziali: la separazione dell’ambito scolastico (di qualunque ordine e grado) e del sapere dalla finalizzazione esclusivamente volta alla competizione lavorativa e, allo stesso tempo, la gestione statale e non più regionale (come per il comparto sanitario) di ogni scelta che riguardi organigrammi, programmi, strutture e infrastrutture del mondo della conoscenza in Italia.
La divisione dei poteri, la loro devoluzione in base all’ormai famigerato “Titolo V”, non ha nemmeno in questo caso portato nulla di buono alla società italiana: il problema sta sempre nella struttura economica, ma non da meno è da riscontrare nella distanza che riusciamo a mantenere tra ruolo pubblico e sociale di uno Stato che si avvicini a questi parametri comunitari e il tentativo esattamente contrario di privatizzare le vite, di farne merce di scambio e oggetto di lucro da parte dell’imprenditoria e dell’affarismo nazionale ed internazionale.
Sconfiggere la pandemia e pensare di ricollocare la scuola (e la sanità) nello stesso piano inclinato di prima, è una vittoria di Pirro: anzi, è l’ennesimo nuovo inganno che si potrebbe tentare di far passare come la risoluzione di ogni problema precedente, avendo davanti a noi però le prospettive catastrofiche di una nuova stagione privatizzatrice con un aggravato problema occupazionale, lascito impietoso del Covid-19 e dei mancati sostegni privati ad una tragedia globale.
MARCO SFERINI
12 gennaio 2021
Foto di Pete Curcio da Pixabay