Nel 2016 la Cgil fu impegnata direttamente in prima fila per il No al referendum costituzionale. Quattro anni dopo le cose sono molto cambiate. Nonostante una posizione chiaramente critica verso la nuova riforma del solo taglio dei parlamentari, la Cgil non si impegnerà direttamente nella campagna per il voto del 20 e 21 settembre.
Le ragioni sono più di contesto che di sostanza. Come sta accadendo a tutta la campagna elettorale, il condizionamento del Covid ha portato Corso Italia a considerare altre le priorità, a partire dalla battaglia sui licenziamenti e sul rinnovo dei contratti assieme a Cisl e Uil. In più il rischio di fare una battaglia per intestarsi una probabile sconfitta viene considerato negativo anche per i rapporti che si stanno ricucendo con le forze di maggioranza M5s e Pd che sono schierate per il Sì. Nel 2015 invece la battaglia fu fatta contro Renzi e il renzismo che ebbe come primo bersaglio la Cgil.
Formalmente la segreteria della Cgil affronterà all’inizio di settembre il tema. Ma ben difficilmente si scosterà da una posizione che prevede «la libertà di scelta» per gli iscritti.
Allo stesso modo va al momento escluso che alcune categorie, personalità o territori scelgano un protagonismo per appoggiare il No.
Rimane comunque l’impegno dell’organizzazione «a promuovere un’informazione capillare e momenti di confronto per favorire una scelta partecipata e consapevole di lavoratori, pensionati e cittadini chiamati ad esercitare il diritto fondamentale del voto in un’occasione cruciale per la vita democratica del paese».
Insomma, qualcosa di assai diverso dalla posizione equidistante fra Sì e No spiegata da quel Gustavo Zagrebelsky che fu sempre a fianco di Fiom e Cgil nelle battaglie dell’ultimo decennio. Ma non abbastanza per schierarsi direttamente in una partita complicata e dall’esito che a Corso Italia viene considerato segnato.
D’altra parte anche le tante organizzazioni sociali che sono per il No sono rispettose della scelta. Così come nel 2015 la Cgil non entrò nelle dispute che divisero l’Anpi – i famosi «partigiani veri» citati da Maria Elena Boschi – nonostante una posizione chiara per il No della stessa organizzazione.
Entrando nel merito, le critiche della Cgil al taglio dei parlamentari sono precise e allo stesso tempo decise.
Nel documento discusso e approvato in segreteria a febbraio – quando il referendum era stato fissato al 29 marzo – si cominciava ricordando la «diminuzione complessiva di circa il 37% dei rappresentanti» in parlamento.
La bocciatura del taglio è senza appello: «Una riduzione dei parlamentari promossa in questi termini, senza un ragionamento sulla ridefinizione del ruolo delle due Camere e delle rispettive funzioni, sottende la strumentalità della riforma in atto (una riduzione fine a sé stessa che non ha eguali in Europa) (…) e porta alla convinzione che non è una questione numerica, di contrarietà ad una riduzione, ma è una questione di rappresentanza democratica e di difesa della centralità del Parlamento».
E ancora: «Il taglio proposto, se da un parte non produrrebbe alcun significativo risparmio di spesa pubblica (stimato dello 0,007%) (…) dall’altro avrebbe numerose conseguenze – non superabili con qualsivoglia legge elettorale – sulla rappresentanza politica e la funzionalità del Parlamento».
Continuando: «La riduzione dei seggi in alcuni territori sarà superiore al 40%, (…) lasciando la contesa politica a chi detiene grandi risorse economiche; (…) numeri tanto ridotti (400 e 200) renderanno impervia l’attività delle commissioni (…)».
Per concludere che la riforma «produrrà inefficienza nei lavori parlamentari, limiterà l’agibilità e la capacità ispettiva e di controllo delle opposizioni (quelle che riusciranno a essere elette), e consentirà l’approvazione di norme da appena 4 senatori».
MASSIMO FRANCHI
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