La spettacolarizzazione della sofferenza produce mostri. Non sono coloro che soffrono, perché diventano vittime due volte: del loro patimento, delle ingiustizie che subiscono in quel preciso istante e dell’ammirazione di chi, da un osservatorio privilegiato, lontano e ben al sicuro, diviene la quinta essenza del cinismo, della banalità del male. Non importa se consapevolmente o no: perché nel primo caso abbiamo la conferma di quanto affermiamo; nel secondo caso, non esiste alcuna attenuante derivata da una presunzione di innocenza frutto di una presunta incoscienza, di un aggrapparsi all’ultima delle possibili bontà di fede.
Ogni giorno, ormai non solo più soltanto sullo schermo televisivo, ma sui nostri telefonini, sui tablet, possiamo scorrere tante e tali immagini di crudeltà e odio, di cattiveria gratuita e pregiudizi che la sostengono da estraniarci dalla nostra coscienza e diventare noi stessi delle protesi disumane di telecamere che hanno ripreso eventi catastrofici e singoli omicidi, criminali uccisioni riproposte da trasmissioni che non separano l’inchiesta dallo spettacolo, ma anzi fanno della cronaca nera il primo degli spettacoli, quello che alza gli indici di ascolto e gli introiti pubblicitari.
L’assuefazione è tale da impedire anche allo spettatore più distaccato e sinceramente critico di sottrarsi completamente da questo circolo vizioso, un tempo alimentato solo da pochi giornali di pettegolezzi esagerati, enormemente montati con titoli in giallo su sfondo nero per attirare l’attenzione di chiunque, diventare una icona, un simbolo riconoscibile. Un “brand” si direbbe oggi.
L’avvento di Internet ha rivoluzionato anche questo torbido mondo di nefandezze, di ombre che si dipanano un poco solo con la luce del giorno che, tuttavia, non è sufficiente a rischiarare le menti, a riportarle ad una razionalità che combatta il desiderio di diventare un po’ tutti degli investigatori di polizia criminale, di squadre omicidi, di commissariati italiani, tedeschi, americani, inglesi, francesi. Nessun paese è immune dalla montagna di telefilm e serie tv la cui trama poggia su un cadavere che rimane solo, isolato nel contesto per brevi istanti. Del resto, lo diceva anche Agatha Christie, che esistono poche storie di omicidio dove l’assassino si ferma, dove la vittima rimane una soltanto.
Così film e telefilm debordanti di serial-killer prendono il sopravvento nel mercato televisivo e cinematografico: addio commissario Maigret, addio tenente Chan, addio misterl Holmes… Il poliziotto, l’investigatore che osserva, ragiona, magari non estrae quasi mai la pistola per sparare e nemmeno porta con sé le manette, non surriscalda la voglia di truculenza degli animi moderni.
All’indagine che unisce il giallo al nero, che stempera un poco il buio assoluto del cuore di tenebra di tanti assassini, si sostituisce la velocità degli inseguimenti, di macchine accartocciate, rocambolesche piroette di moto che sfrecciano a duecento all’ora per le vie trafficate di metropoli intasate di passanti inermi, inerti e stupefatti tanto quanto lo spettatore.
Spettacolo oltre lo spettacolo: la maestria di Alfred Hitchcock, l’unità tra dramma amoroso, psicologico e criminale al tempo stesso è roba da cultori del genere, non da improvvisati anatomopatologi che in ogni casa imparano terminologie mediche che ripetono senza sapere nemmeno dove si trovi questo o quell’arto appena esaminato, estratto dal cadavere.
Già, i cadaveri. La morte concreta, reale, visibile eppure così lontana dalla vita che la circonda ancora. La più vicina metafora reale che si può associare al corpo inanimato della vittima è il freddo marmo che la sorregge igienicamente. Niente di più. Al massimo, un tempo, nemmeno poi tanti decenni fa, questa sarebbe stata la rappresentazione del defunto in circostanze poco chiare in un telefilm dalle aspirazioni gialliste. Oggi non basta, non è sufficiente a far crescere quel tanto di adrenalina che nemmeno la suspence e l’eccitazione provocata da un classico di Hitchcock sono in grado di generare.
L’attesa di chi guarda deve essere premiata da un giusto spettacolo: se improvviso, nemmeno frutto della fantasia di qualche sceneggiatore di Hollywood, meglio ancora. Se si può, perdinci!, diventare noi stessi cineasti (si fa per dire…) di un evento, ecco pronta la moderna telecamera tascabile: si estrae il telefonino, in tutta fretta, e si filma. Non importa se dall’altra parte c’è una rissa tra genitori che rischia di degenerare, una lite per qualche semplice posto su una altalena nei giardini pubblici.
Non importa se oltre la lente dei 48 o più megapixel delle quattro telecamere che hai sul cellulare c’è un carabiniere pestato quasi a morte da un gruppo di maneschi frequentatori di discoteche. Non importa nemmeno se una donna si cosparge di benzina con una bottiglietta di plastica, si dà fuoco e, invece di soccorrerla, una ventina di persone la osservano da dietro i loro telefonini: riprendono la scena. Soltanto un uomo non si mette in mente di diventare famoso con un video straziante: scende dalla sua automobile, dove sta viaggiando con la moglie, prende uno straccio e cerca di spegnere quelle fiamme.
Gli altri osservano, riprendono, magari pensano di essere diventati dei documentaristi… L’uomo prova a salvare la donna in preda alle fiamme, ma è da solo. Arriva, quando è troppo tardi, un altra persona con un estintore, in preda al panico, non riesce ad usarlo. Allora è sempre il primo soccorritore ad agire: ma è troppo tardi. La donna muore tra atroci sofferenze. Ma alcuni ora hanno un video da caricare sui social network, da mostrare ai parenti, agli amici.
Ecco. Io c’ero, ho filmato. Guarda che bravo che sono stato. La storia ha la sua memoria. Soprattutto quella di questa indifferenza che si mette dietro ad un telefonino, che stabilisce questo distacco, una sconnessione emotiva, una privazione indotta di empatia: motivata dalla frenesia della voglia di riprendere, di immortalare con un filmato il tragico momento. Che importa, intanto a soffrire è quella povera ragazza che si divincola tra le fiamme.
L’uomo, che ha tentato di tutto per sottrarla alla furia delle fiamme, non si dà pace. E’ preso dai rimorsi. Dichiara ai giornali: “…la gente con il telefonino dal parcheggio mi ha lasciato di sasso. Si parla di un essere umano, ma quelle persone con il telefonino cosa facevano, riprendendo? Se fossi passato un paio di minuti prima, forse l’avrei salvata“.
Empatia. Riconoscimento delle stesse emozioni che proveremmo noi, del medesimo dolore se fossimo al posto della vittima. La mancanza di questa coscienza può anche essere attribuita singolarmente ad un individuo particolarmente propenso, proprio caratterialmente, ad essere privo di uno sguardo interiore, di una identificazione di sé stesso con l’altro che brucia là, in mezzo al prato, poco lontano dalla strada.
Ma quando sono una ventina le persone che alzano a mezz’aria i cellulari e riprendono quella vita che si consuma lentamente negli spasmi provocati dalle fiamme, allora il fenomeno è più vasto, è da ricercare in una ossessione, in un compulsione. Da ricercare, alla fine, in quale recondito comando dell’animo umano? Cosa ci spinge a non considerare anche nostre le altrui sofferenze?
Forze solo il cinismo? Forse soltanto la voglia di un protagonismo da social, per pubblicare quei video e ricevere tanti “likes“? Probabilmente i motivi sono più d’uno e si sommano anche, fino a divenire una insopprimibile voglia, un istinto quasi ancestrale e primordiale che si sostituisce alla percezione dell’appartenenza alla stessa specie. Per cui dovremmo aiutarci gli uni con gli altri, riconoscendoci eguali in tal senso.
Ecco, forse è proprio questo che, nel fondo del fondo, nel più profondo degli antri del nostro animo disumano manca: il riconoscersi come tali nel confronto con gli altri. Ogni giorno viviamo di luce riflessa dai nostri specchi e non proviamo quasi mai a mettere in raffronto le nostre vite con quelle degli altri. Raramente consideriamo quanta sofferenza può esservi nella persona che ci transita accanto e, se anche ce ne accorgiamo, magari perché viene manifestata col disagio, col pianto, con una oggettiva evidenza, ci voltiamo dall’altra parte e pensiamo ai fatti nostri.
I telefilm polizieschi dovrebbero infondere un grande senso di giustizia in chi li guarda: sovente nelle sceneggiature vengono inseriti messaggi positivi, soprattutto per le giovani generazioni. Ma l’indifferenza, l’odio ed il cinismo paiono avere la meglio, come sentimenti tipici umani (non certo degli animali che agiscono per istinto e non per calcolo subdolo, interessato), piuttosto della solidarietà, del mettersi nei panni altrui, nel provare a considerare i fatti non solo dal punto di vista abituale, tipico della nostra quotidianità, ma semmai proprio dall’opposto punto di osservazione rispetto al nostro.
Così accade che tra venti persone, venti astanti di un ristorante, solo una senta il dovere morale, civile, umano di prendere parte al dramma di una donna che ha deciso un gesto estremo per mettere fine alla sua vita. Perché tutta questa indifferenza? Non era un telefilm, ma la realtà. Non era una scena di un film poliziesco girata all’aperto. Ma i registi improvvisati c’erano.
L’abitudine all’orrore, finto o vero che sia, ci rende noi stessi l’orrore. Le domande sono tante. Speriamo di riuscire a dare presto delle risposte, altrimenti c’è poco da stupirsi se, davanti ai tanti anatemi contro i migranti che arrivano, ai commenti degli odiatori di professione su Internet si aggiungano altre migliaia di commenti rabbiosi. Un disumano col telefonino per riprendere un migrante che affoga anche a pochi metri dalla riva, lo si trova sempre…
MARCO SFERINI
2 agosto 2020
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