A fine febbraio ed inizio marzo, quando si iniziava a vedere pericolosamente salire la curva tanto dei contagiati dal nuovo coronavirus, quanto le altre due curve, rispettivamente dei ricoverati in terapia intensiva e dei deceduti, una serie di comportamenti sconsiderati, contro ogni buona norma sanitaria espressa e riespressa più volte su ogni televisione, giornale cartaceo o in versione Internet, apriva la strada alle peggiori ipotesi.
Il contrasto che si veniva a creare era palese, nella sua completa evidenza si manifestava nella movida dei navigli milanesi e in tante altre piazze e vie delle nostre città: la voglia di libertà è rimasta una più che sacrosanta necessità che superava la tentazione di mantenerla come tale.
Il quadro della gravità della pandemia non era ancora ben chiaro, nemmeno agli stessi virologi, tanto che passano due settimane prima che il governo e il comitato tecnico-scientifico formato dalla Protezione civile e dell’Istituto Superiore di Sanità decidano per misure di contenimento più drastiche dei semplici appelli a mantenere le distanze, a non starnutire liberamente all’aria ma nella piega del gomito, a lavarsi spesso le mani.
Serve la chiusura totale, il cosiddetto “lockdown“. E’ la prima vera interpretazione altamente restrittiva del dettame dell’articolo 16 della nostra Costituzione: la libertà fisica del movimento di ogni cittadino, di spostarsi in ogni parte del territorio della Repubblica, di agire quindi in piena autonomia, libertà e indipendenza, viene compressa, recitata, delimitata da confini precisi, invalicabili.
Dal 9 marzo scorso entra in vigore il primo dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Precedentemente a ciò erano per lo più sconosciuti alla stragrande maggioranza della popolazione. Diventeranno un acronimo (DPCM) che stazionerà anche sugli schermi televisivi per avvertire che certe trasmissioni, dove si vede ancora una notevole presenza di pubblico, sono state registrare prima dell’emanazione del decreto emergenziale.
L’emergenza sanitaria scoppiata in febbraio ha reso necessario un intervento del governo repentino, messo in essere con uno strumento legale, di cui si assume tutta la responsabilità il capo del governo: Conte lo spiega in televisione, perché farlo davanti alle Camere ormai è impossibile. C’è tutta una procedura da riscrivere anche per la convocazione dei due rami del Parlamento, per permettere di coniugare salute e lavori istituzionali. E’ una botta non da poco: mai lo Stato italiano, dalla sua fondazione nel 1861, si era trovato a dover modificare una complicata macchina burocratica che, tuttavia, soprattutto dal dopoguerra ad oggi, ci ha garantito una sostanziale democrazia formale.
Marzo ed aprile sono stati mesi terribili: freudianamente parlando, l’angoscia e le nevrosi si sono prese gioco di molti stati d’animo, di un diffuso terrore dell’untore di turno che ci camminasse accanto. Le strade erano ormai vuote, le movide cancellate dalla faccia dell’Italia, il traffico automobilistico era azzerato. Durante il giorno pochi spostamenti, solo mediante le tante versioni cangianti dei certificati emessi dal Ministero dell’Interno: per fare la spesa, velocemente; per portare fuori il cane; per comperare un giornale; per esigenze sanitarie di altra natura. Niente di più. Tutti chiusi in casa, quasi ventiquattro ore su ventiquattro.
Così fino al 18 maggio scorso, quando la fase 1 ha lasciato la staffetta in mano alla fase 2: qualche restrizione in meno, molta prudenza e la nuova parola d’ordine in quella frase, “Convivere con il virus“, che significava e significa tutt’ora indossare le mascherine all’aperto se non si mantiene la distanza di almeno un metro, obbligatoriamente da calcare su naso e bocca se ci si trova al chiuso, continuare a tenere le distanze che da “sociali” diventano nella nuova vulgata qualcosa di più preciso e meno scostante e precisano meglio il disvalore del comportamento obbligatorio: diventano “distanza personale“.
L’articolo 16 della Costituzione sembra essere in parte riconsegnato ai suoi cittadini: si può circolare, tornare a correre nei parchi, giocare, frequentare locali e ristoranti, fare la spesa con la dovuta calma, anche fermarsi a casa di amici o in istrada a discutere, ma con le precauzioni e le protezioni sanitarie del caso.
Si riaprono i varchi regionali, ci si può muovere quindi in tutta Italia e si può anche riprendere a viaggiare all’estero. I poteri del governo rimangono ampi ma le limitazioni sociali scemano progressivamente: tuttavia sono vietati gli assembramenti dovuti a manifestazioni politiche, sindacali, culturali; si può protestare ma lo si deve fare senza cortei, staticamente. Una buona occasione per diventare un po’ più britannici o anglosassoni nel senso lato del termine, imparando dalle suffragette novecentesche a tenere tanti “sit-in” davanti al luogo del potere verso cui si muovono le rimostranze.
Anche in questo caso, non solo l’articolo 16, ma pure altri articoli della Costituzione, riassumono il loro valore primigenio. Lo “stato di emergenza“, proclamato fino alla fine di luglio, per sei mesi, però permane. E’ una questione di stretto legame tra emergenza sanitaria ed emergenza sociale: si vuole cercare di intervenire prontamente qualora scoppiassero nuovi focolai. Serve velocità e prontezza di coordinamento delle istituzioni: rimettere mano ad eventuali “zone rosse” deve essere compito del governo in stretta correlazione con le Regioni e, pertanto, non vi possono essere passaggi di discussione parlamentare in merito. E’ comprensibile.
Tuttavia non è possibile evitare una stigmatizzazione dell’uso sistematico nei mesi scorsi della decretazione presidenziale al posto addirittura dello strumento dei decreti-legge (che devono passare dalla ratifica del Parlamento, a differenza dei DPCM) che, dopo parecchie proteste, sono divenuti il nuovo metodo di legiferazione nella prima fase dello “stato di emergenza“.
I DPCM hanno dato al Presidente Conte non solo pieni poteri ma anche piena visibilità nella gestione della crisi sanitaria. Il resto del governo, fatto salvo il Ministro Roberto Speranza, è parso in secondo piano, mentre addirittura in terzo, quarto piano, dietro le quinte ad osservare mestamente come andavano le cose, del tutto inertemente, è rimasto il Parlamento.
Per un Paese abituato a vedere eterne discussioni alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica su cavillosità che determinano la funzione di questa o quella legge in una determinata direzione, ritrovarsi una tv con un onnipresente Conte e una sparizione improvvisa delle immagini consuete dei due rami del Parlamento, non è stato facile.
Almeno per le centinaia di migliaia di coloro che seguono attentamente la politica e le sue circonvoluzioni. Anche per chi, comunque, presta scarsa attenzione a quanto accade nei palazzi istituzionali, è parsa evidente la sovraesposizione mediatica del Presidente del Consiglio dei Ministri: ma era, in fondo, l’esatta trasposizione fenomenica della decretazione d’urgenza affidata alla volontà, al decisionismo e alla responsabilità di Conte, controfirmato da Speranza.
Ieri il Senato della Repubblica ha approvato la proroga dello “stato di emergenza“: fino al 15 ottobre. Questo significa che per altri due mesi e mezzo il governo – e nello specifico il capo dell’esecutivo – potrà intervenire motu proprio in ogni ambito dove si riscontri l’insorgere di nuovi preoccupanti sviluppi del virus. Potrà istituire zone rosse, delimitare nuovamente gli spostamenti dei cittadini, vietare qualunque tipo di manifestazione, di riunione.
Ed è proprio in questo rinnovo dello stato emergenziale, nel momento in cui il virus continua indubbiamente a circolare e a manifestarsi in tanti focolai dispersi nel Paese, che va rimessa in discussione la potestà prolungata di farsi attribuire un potere sconfinato. Di farselo nuovamente attribuire, senza bisogno della richiesta di un voto di fiducia alle Camere.
Il punto critico sta nel confronto tra emergenza sanitaria ed emergenza sociale, strettamente legate fra loro nella prima fase della pandemia da cui, come sostengono un poco tutti gli esperti, possiamo al momento dire di essere venuti fuori. Probabilmente, ed è anche una mia personale convinzione, stiamo vivendo ampiamente di rendita dei frutti di un isolamento bimestrale che ha impedito al virus di circolare liberamente e, seppure con molte disattenzioni e tante superficialità, l’utilizzo della mascherina e del distanziamento personale in una buona maggioranza di casi serve a rafforzare l’onda lunga dell’effetto della chiusura totale di marzo e aprile.
Tutte le ragioni scientifiche del caso, poi, possono supportare la tesi secondo cui il Covid-19 si sia indebolito, sia mutato. Ma non esistono al momento prove ed evidenze scientifiche, visto che – come ha ricordato anche un uomo dell’apparato di Donald Trump (o meglio, degli ultimi cinque presidenti americani), il professor Fauci – le alte temperature non impediscono al virus di espandersi dal Maryland alla California, da New York al Texas.
Lo “stato di emergenza” non ha avuto proroghe in Francia. Diversa la situazione della Spagna che conosce in questi giorni una recrudescenza del virus abbastanza sostanziosa. Dunque, perché se Parigi rientra nella sua piena costituzionalità, nel pieno rispetto dei diritti e degli spazi per i diritti dei singoli cittadini e della collettività, Roma non può altrettanto farlo?
Il timore è che ci si “abitui all’abitudine“, che non occorra più il dilagare della pandemia nella forma prepotente con cui si è gettata sul nord Italia a febbraio, ma che basti sempre molto meno per non ritornare al pieno godimento dei diritti civili, sociali e morali previsti dalla nostra Costituzione. Il timore è che, quello che Giovanni Russo Spena ha definito “un pericoloso scivolamento verso lo Stato etico” che le parole della Ministra dell’Interno Lamorgese fanno un poco maliziosamente – se vogliamo – intuire o sospettare.
Laddove si afferma: “In autunno vi potrà essere una inevitabile ricaduta in termini di tensioni sociali. Temo sbocchi di piazza non sempre ragionevoli. Passato il periodo estivo, tutta quella componente di società che faceva grande affidamento sul turismo vivrà veramente situazioni disperate”, è come se si volessero creare degli alibi ante litteram, preconcettualmente posti, per gestire il disagio sociale con i poteri concessi dallo stato emergenziale sanitario.
E’ lampante come esista il fondato pericolo che lo “stato di emergenza” possa essere utilizzato per governare oltre la governabilità, per fare dell’esecutivo uno potere che oltrepassa l’applicazione delle leggi e che rischia di divenire esso stesso legislatore (con quell’abuso dei DPCM già precedentemente citato; con anche l’utilizzo dei decreti-leggi anch’essi ricordati come “male minore“).
Pericoloso e insidioso diventa il il confine tra la legittimità della protesta operaia e dei lavoratori in generale, il diritto allo sciopero e alle manifestazioni, è il potere del governo di intervenire in merito dichiarando che si tratta sempre e comunque di una prerogativa concessa dall’emergenza sanitaria. Fino a che punto il virus può giustificare qualunque azione dell’esecutivo, l’estromissione del Parlamento dalle decisioni fondamentali?
Nessuna obiezione al fatto che la proroga dello “stato di emergenza” serva anzitutto a disporre con celerità in materia di sicurezza personale e collettiva della popolazione, di recupero dell’ambito scolastico, di tutela dell’ingresso nel Paese di persone provenienti da Stati interessati da un’evoluzione pericolosa della pandemia. Finché l’emergenza dei poteri è strettamente collegata all’emergenza sanitaria propriamente detta e definita, concretamente e oggettivamente riscontrabile, lì i poteri speciali sono addirittura fondamentali.
Anche se tutta una legislazione ordinaria è lì pronta a disporre non solo il comportamento istituzionale nella singolarità delle situazioni che si presentano, ma prima di tutto nel disporre le adeguate efficienze dei poteri speciali affidati ad organismi come la Protezione civile per intervenire prontamente nel caso di emergenze che investano una parte o tutto il territorio della Repubblica.
Il dilemma dei dilemmi riguarda, infatti, la nascita di nuovi poteri dietro al sorgere di nuove emergenze globali. Ve ne saranno altre e andranno affrontate più o meno come oggi stiamo facendo: con picchi del rischio e discese dello stesso. Con riduzione degli spazi di vita ridotti ad un adeguamento necessario che rischia sempre di estendersi oltre il tempo, lo spazio e le modalità che ci si concedono mediante, appunto, strumenti usati e abusati come i DPCM.
Non si possono separare le libertà le une dalle altre. Libertà civili e libertà sociali sono unite senza soluzione di continuità nello sviluppo generale del Paese. Scinderle e trattarle in modo differente a causa della pandemia, consentendo al singolo ciò che non si permette al collettivo (o viceversa), equivarrebbe a fare involvere la democrazia, a renderla sempre meno popolare e sempre più plasmata su privilegi attribuiti secondo valori che prescindono dall’egualitarismo che è profondamente scolpito nell’articolo 3 della Carta.
Il governo può ancora, fino a metà ottobre, dotarsi di strumenti eccezionali per gestire una fase eccezionale. Ma deve anche avere ben presenti tutti i rischi che una simile, prolungata fase di sopraelevazione del potere esecutivo sugli altri poteri pone alla tenuta prettamente istituzionale del Paese.
Non tanto nella cultura della maggioranza di governo, tanto meno nella compassata esposizione dei fatti da parte del Presidente Conte, si può leggere questo pericolo. Semmai da un insieme di circostanze, da altri settori dello Stato che possono approfittare di ciò per agire contro la libertà di espressione del dissenso, per rovesciare la verità dei fatti già da subito.
Lo si vede palesemente nelle dichiarazioni dei principali esponenti delle destre neofasciste e sovraniste: laddove accusano il governo di mettere in pratica una torsione autoritaria, ebbene lì inizia il pericolo vero e proprio. La trasformazione della verità in propaganda e la tentazione di adoperare l’emergenza per inquinare la democrazia, facendo leva su una politica governativa che eccede in zelo, forse, ma che – almeno nelle dichiarate intenzioni – non intende sovvertire l’ordinamento repubblicano.
Anche se, a onor del vero, l”election day” di settembre, dove si proverà a far passare una pericolosa controriforma che taglia il Parlamento e lo depotenzia ulteriormente nella sua funzione di vigilanza democratica, non è certo un passaggio rassicurante in quanto a mantenimento della civicità dei diritti e dei valori costituzionali.
Il passo dallo stato di necessità a quello di una “perversione” del medesimo, alla dissipazione della “normalità” formalmente intesa come rapporto tra cittadinanza e rappresentanza democratica delle medesima nell’equilibrio dei tre poteri, è davvero tanto, troppo breve. Si rischia di fare di necessità non virtù, ma vizio.
Il governo, se davvero intende agire nell’interesse pubblico (detto senza troppe illusioni ma anche senza una eccessiva vena maliziosa), deve fare attenzione a che l’emergenza sanitaria non divenga sempre più un trampolino di lancio per un adeguamento abitudinario tanto della popolazione quanto delle istituzioni ad uno “stato di emergenza” che rischi di essere scritto non più con la “esse” minuscola.
MARCO SFERINI
29 luglio 2020
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