209 miliardi. Ma l’Europa non ha cambiato il suo volto antisociale

Quattro giorni pieni, notti comprese. I Paesi ricchi e quelli meno ricchi, i paesi “frugali” e quelli di Visegrad, la sponda mediterranea e i mitteleuropei sembrano aver trovato l’intesa:...

Quattro giorni pieni, notti comprese. I Paesi ricchi e quelli meno ricchi, i paesi “frugali” e quelli di Visegrad, la sponda mediterranea e i mitteleuropei sembrano aver trovato l’intesa: il celeberrimo “Recovery Fund” dovrebbe conservare la cifra originariamente annunciata di 750 miliardi di euro ed essere composto da 390 miliardi di sussidi. Il resto saranno prestiti da restituire nelle casse della UE.

Siamo al punto di arrivo di uno scontro serrato non tanto sul tipo di misure sociali da adottare per lenire le sofferenze nazionali dovute alla pandemia da Covid-19, quanto per definire accuratamente gli equilibri di potere tra i vari Stati all’interno dell’Unione Europea. Lo si fa, cinicamente, con un aggiornamento di crudele realpolitik, attraverso le cifre dei sussidi a fondo perso e quelle dei prestiti da rendere secondo condizioni non certo rassicuranti. Il MES, del resto, rimane sempre a scrotare – avrebbe detto Eduardo – dietro l’angolo…

Il tutto si ammanta di un’aura che trascende il presente, che si proietta alle scadenze del 2023, data entro la quale l’Italia dovrà spendere i soldoni che le vengono concessi: 209 miliardi. Cifra importante che ora dovrà essere in qualche modo gestita. Non a caso Luigi Di Maio interviene anzitempo, prima che il Consiglio europeo risolva anche l’ultimo dubbio, l’ultima contrarietà: serve una “cabina di regia” per valutare dove, come e quando destinare ogni singolo centesimo di euro.

La magia dell’Europa funziona ancora“, sospira con lo sguardo di una Norma Desmond il Presidente Charles Michel, quasi volesse profetizzare il futuro di una economia transnazionale che giochi al rilancio di sé stessa, stabilendo un fulcro su cui far giocare un equilibrio nuovo volto a contrastare  il protezionismo dei sovranisti e che, allo stesso tempo, neppure ceda alle necessità troppo sociali invocate per disperazione soprattutto dall’Italia e dalla Spagna.

La solidarietà europea si ferma ben prima di qualunque timido progetto riformatore socialdemocratico. Il mutuo soccorso fra gli Stati dell’Unione, non è “uno per tutti e tutti per uno” (che vale solo per i moschettieri di Dumas), ma ricorda semmai la trasposizione molto più moderna fatta da Max Bunker nei fumetti di Alan Ford, laddove il vegliardo Numero Uno, al momento di spartire il gruzzolo col resto del Gruppo TNT, specifica: “Si fa sempre con il nostro motto: ‘Uno per tutti e tutto per uno'”.

C’è una sola vocale di differenza col motto dei moschettieri del re di Francia, ma questa diviene, in un battibaleno, sostanziale, determinante e determinata come la logica proprietaria e sovranista degli olandesi che hanno costruito un balletto delle cifre che mortifica tutte le belle parole sulla grande compagine solidale europea rappresentata dalle sue istituzioni, dalla sua giustizia, dalla fratellanza reciproca, dai proclami che restano così sempre un passo indietro rispetto alle rigide regole e prerogative dei trattati.

Il tavolo dei 27 paesi ha stilato un bilancio comunitario che copre un ambito temporale dall’oggi al 2027 e che coniuga stabilità economica con stabilità politica, pur essendo la sovrastruttura interstatale dell’Unione un puzzle difficile da comporre fino all’ultimo tassello, viste le differenti politiche nazionali collegate a politiche estere che travalicano il Vecchio Continente e che quindi guardano ad una globalizzazione molto più vasta del ristretto – e pure determinante – campo europeo.

La partita, che è stata giocata nella sala tutta arcobaleno del Consiglio europeo, è verissimo che parte su un terreno meramente economico, ma poi quella partita si allarga, include tanto gli accordi bi-trilaterali d’oltreoceano, quelle della nuova “via della seta” che guarda ad oriente e ovviamente include appieno tutta la sfida delle alleanze interne all’Unione. Per cui, andando a scrutare più da vicino, nei meandri tra economia e politica, le ipotesi sul futuro si fanno avanti copiose e nemmeno poi così campate in aria.

Tra gli analisti più esperti, che scrivono per autorevoli riviste (compreso “Il Sole 24 Ore” di casa nostra), si vocifera che Rutte non sia indubbiamente un buonista quando siede al tavolo a trattare degli interessi dei Paesi Bassi, ma non è nemmeno quel villain che potrebbe apparire tale: il suo obiettivo – dicono – sarebbe non tanto indebolire i Paesi dell’Unione che patiscono tutte le sofferenze dell’emergenza sanitaria, semmai invece rompere l’asse tra Francia e Germania, interrompere il flusso che unisce le spinte solidaristiche del liberismo temperato di Angela Merkel unitamente all’idea tutta francese del “Recovery fund“, farebbe saltare l’impostazione di un’Europa a trazione nordica.

Al tavolo dei 27 si è discusso tanto di merito quanto di metodo: se da un lato Rutte prevale sul diritto di veto, dall’altro l’Italia incassa 209 miliardi di euro. Una vittoria prima di tutto politica per il governo Conte che può dire di non aver ceduto alle elemosine olandesi, di aver tenuto botta e di tornare a Roma con la bisaccia piena di rassicurazioni per il capitalismo italiano.

Qualcuno potrà anche parlare di “intesa storica” e, per certi versi, lo è: non fosse altro perché in questi quattro giorni e in queste quattro notti non si è definitivamente scomposta la frattura tra le varie visioni economiche dei Paesi dell’Unione Europea. Questo è uno degli elementi che va osservato più da vicino per cercare di capire il livello del compromesso cui si è giunti, considerando certamente ogni singolo punto dell’accordo, ma sapendo guardare anche oltre, evitando di astrarre la UE dalla competizione globale di un moderno liberismo che non si lascia certo sfuggire di mano il polo europeo.

L’Italia porta a casa il “Recovery Fund” con 80 miliardi di sussidi a fondo perso, ma non prevale certo una idea di mutuo soccorso tra gli Stati alla fine di questo Consiglio europeo. Nessuna buona intenzione nei confronti del lavoro salariato, nessuna idea minimamente sociale sfiora le inossidabili colonne d’Ercole del trattato più celebre, quello firmato a Maastricht, città olandese, nemesi di contemporaneità di una storia che rimanda al primato economico su quello politico e rispetta in tutto e per tutto le dinamiche del capitalismo: l’unione monetaria avrebbe dovuto, dall’ormai lontano 1992, preparare quella politica, civile, sociale.

Dopo quasi trent’anni, invece, il Regno Unito è uscito dall’Unione Europea, la moneta unica non ha messo in cantiere nessuna base su cui erigere una solidarietà sociale tra i popoli europei, la concorrenza economica dimostra che nemmeno esiste una chiara “governance” unitaria, una gestione dei rapporti con gli altri grandi poli capitalistici mondiali e, infine, l’assalto del coronavirus ha destabilizzato definitivamente un quadro ampiamente compromesso.

Clinicamente parlando, l’Europa del “Recovery Fund” è un gigante davvero dai piedi di argilla che nessuna magia può trasformare in una solida fortezza: tranne quando si tratta di mettersi sulla difensiva, di respingere qualunque cambiamento volto alla vera unità popolare, alla solidarietà internazionale.

209 miliardi o meno, l’Unione Europea non è da oggi più buona e generosa nei confronti né dell’Italia né dei paesi che ha in passato strangolato con risoluzioni dei loro debiti che nemmeno un Arpagone avrebbe potuto proporre al più povero dei debitori.

Ma la disperazione è tanta, il pericolo sovranista contro lo stato di diritto (Ungheria, Polonia, ma non sono esenti Paesi come Olanda ed Italia…) sempre dietro l’angolo, e si rischia di aggrapparsi alla veste lussuosa anche del padrone pur di ottenere qualche briciola che cada dalla sua tavola ben imbandita.

Per questo senza delle serie riforme sociali, senza un intervento copioso nei confronti dei redditi da capitale piuttosto che da quelli da lavoro e sistema pensionistico da esso derivato, non può dirsi ben speso nessun centesimo della somma “guadagnata” da Conte a Bruxelles. Le riforme che sono necessarie si scontrano inevitabilmente con l’impianto liberista dell’Unione Europea, ma possono aprire un fronte popolare nella gestione pubblica delle risorse, rendendo fortemente progressiva la fiscalità sui grandi patrimoni, diminuendo il monte ore di lavoro a parità di salario e puntando su una svolta ambiental-socialista che unisca e non divida ecologia e sviluppo.

Ma tutto questo non lo può fare né il governo attuale né tanto meno un governo sovranista. L’unica possibilità che abbiamo per vedere il principio di un simile cambiamento è continuare la costruzione del fronte delle sinistre di opposizione, di un condominio di piccole forze antiliberiste e anticapitaliste per aprire un varco nel bipolarismo incrostato delle idee prive di un lungo termine, di una spinta ideologica che sia la rimessa in discussione di un modo di sopravvivere che nessuno “Recovery Fund“, per quanto benefico possa essere, potrà mai trasformare in una vita veramente degna di essere vissuta.

MARCO SFERINI

21 luglio 2020

foto: screenshot

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