L’ufficialità è arrivata dopo mesi e mesi di trattative, di schermaglie e scaramucce che oggi vengono minimizzate dal tentativo azzardato di valorizzarle, facendole passare come percorso di confronto inedito tra partiti un tempo acerrimi avversari (ed in effetti in parte è anche così), sorvolando sul fatto che senza la linea dettata da Conte (quella della necessità di una proposta unitaria della maggioranza nelle elezioni regionali del prossimo fine settembre) ben poco si sarebbe quagliato.
Così, per volontà di Roma e spinti dalla necessità di ritagliarsi uno spazio in Consiglio regionale più consistente di quello che otterrebbero con presentazioni solitarie o raffazzonate, PD, M5S e il “campo progressista“, hanno scelto il giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Ferruccio Sansa, figlio del già sindaco di Genova Adriano, alla guida della compagine governativa giallo-rosa in Liguria.
Mancherà Italia Viva che si è autoesclusa e correrà da sola. E non è detto che questa sia una cattiva notizia. Anzi. Ma si ripropone ancora una volta lo stesso stanco campo di battaglia maggioritario e bipolare: un centrosinistra associato ad una delle tre destre del Paese (quella populista), contro il carrozzone delle destre che attualmente siede nella giunta regionale ligure.
Un’elezione regionale di questa natura, associata ad altre tornate che si svolgono in grandi contesti come la Toscana, la Puglia, finisce per avere una fisionomia da voto parlamentare, per divenire quello che, giornalisticamente parlando, viene etichettato come “test per il governo“.
Le premesse vi sono, infatti, tutte: da una parte la maggioranza di governo, dall’altra l’opposizione. Più o meno i perimetri delle coalizioni sono quelli che si possono delineare tracciando le linee di confine tra i gruppi parlamentari nei due rami del Parlamento.
Tatticamente parlando, dopo lustri di prove e controprove sull’efficacia riscontrata dal rapporto tra comunisti e sinistra moderata, sarebbe stato e sarebbe tutt’ora controproducente e privo di significato un sostegno ad una coalizione formata da PD, M5S e LeU.
L’impossibilità di un abboccamento e di un patto tra comunisti e neo-riformisti in Italia trova le sue radici in un problema ormai “storico“, consegnato all’esegesi dei sacri testi pieni di analisi sul contesto attuale e sulle prospettive future. E’ una tela di Penelope che viene fatta e disfatta ogni volta che si avvicina il voto. La sinistra moderata di questo Paese è prevalentemente guidata da uno spirito “governista” che esclude qualunque progetto egemonico sganciato dal liberalismo centrista in materia di temi civili e da surrogati di liberismo temperati con qualche pizzico di sguardo al sociale.
Ciò è dovuto al fatto che in Italia, a differenza che in altri Paesi dell’Unione Europea, le forze della sinistra moderata e dell’ecologismo (Sinistra Italiana, Articolo 1, Possibile, Verdi) hanno ormai endemicamente assunto su sé stesse l’accettazione della “normalità” del sistema economico in cui viviamo. Nessuna di queste piccole formazioni si propone una critica “senza se e senza ma” al capitalismo, ma soltanto una critica sociale che stia dentro i confini del lecito, del possibile, del contesto presente senza avventurarsi nella disposizione tanto d’animo quanto di programma di una rivalutazione delle contraddizioni evidenti del sistema.
La scelta è di campo: se il tuo ruolo come partito ha un senso soltanto se riesci ad avere una rappresentanza istituzionale, ogni altro ambito di lotta diviene conseguentemente meno rilevante e, pertanto, anche il dialogo con i movimenti spontanei cede il passo alla “ragion di Stato“, alle “compatibilità economiche“, alle “ragioni dei mercati e della finanza“. Pur non volendolo, certo, ma finendo per accettare compromessi su compromessi e, alla fine, poco dignitose compromissioni che avvicinano, passo dopo passo, al confine tra socialismo e liberismo.
E’ la “dittatura del pragmatismo“, quel richiamo alla fuga dall’utopismo che fa sempre comodo quando si vuole etichettare chi chiede qualcosa di più come un candido illuso, un tenero sognatore. Rinasce così, come dalle sue ceneri l’Araba Fenice, un riformismo nemmeno tanto strutturale, minoritario nel raffronto con i partiti maggiori che si reggono su altre interpretazioni tanto del quotidiano quanto del complesso mondo economico e sociale in cui viviamo.
Per la sinistra moderata rappresentata da questi “campi progressisti“, la tattica diviene strategia nel momento in cui ci si arresta davanti alla sola intenzione di raggiungere le postazioni di governo per gestire quel poco di politiche sociali che mettano ancora una pietra miliare, un segno confinario tra il liberismo sfrenato delle destre e quello temperato del centrosinistra in formazione allargata al populismo pentastellato.
Chi non fa parte di Rifondazione Comunista dovrebbe provare a comprendere le ragioni per cui è impossibile cedere alle ragioni fondatrici stesse del Partito, a quella sfida che univa tanto i miti di Prometeo e di Sisifo in una impresa che, allora e tanto più oggi in questo deserto, in questa solitudine sempre più grande, pretendeva di confrontarsi con problemi enormi del passato e di un presente che velocemente cambiava le dinamiche dei rapporti sociali ma pure le consuetudini politiche.
Non è solamente un tentativo di declinazione del comunismo come “movimento reale” in un millennio nuovo dove sembrano avere la meglio le semplificazioni, le uscite di sicurezza apparentemente rivoluzionarie del populismo (e persino del sovranismo) che portano a sbattere contro la cruda realtà dei numeri bancari e borsistici; è una vera e propria riconsiderazione della democrazia. Di quella popolare.
Scrive Paolo Favilli nel suo libro “In direzione ostinata e contraria. Per una storia di Rifondazione Comunista” (ed. Derive e Approdi, 2011): “La questione della ‘rifondazione comunista’ oggi non è altro che la declinazione della ‘questione democratica’ nei nostri tempi di crisi della democrazia“.
Per questo è necessario che le sinistre di opposizione tanto alle destre quanto al governo attuale si pongano il tema del ricongiugimento della lotta di classe con la lotta per il mantenimento della democrazia repubblicana: formale o sostanziale (quant’anche sarebbe sempre meglio la seconda), rimane la condizione – forma di Stato che più si avvicina al consentire un avanzamento dei fondamentali diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, che più permette di lavorare sull’espansione della critica a questo “stato di cose presente“.
La presupponente e saccente caricatura delle posizioni di Rifondazione come “settarie“, “gruppettare” ed “autoreferenziali” viene snocciolata da tutti coloro che presumono di avere dalla loro parte ragioni sociali che finiscono per non prevalere, per non essere tenute in considerazioni dalle alleanze di governo. Non ottengono il risultato sperato quelle che vanno a toccare gli interessi di classe, la gabbia di protezione dei privilegi degli imprenditori e del privato in generale.
Il metodo governista ha i suoi limiti. E finiscono per essere tanti quando i rapporti di forza interni alla maggioranza sono a tutto vantaggio delle forze maggiori che non sono socialdemocratiche o socialiste di sinistra, ma apertamente liberali e populiste.
Nessun candidato presidente può garantire una inversione di tendenza in questo senso. Neppure Ferruccio Sansa, nonostante si cimenti in una descrizione della propria discesa in campo come unica alternativa al totismo e alle destre ponendo un “aut aut” che è respingente per chi vorrebbe votare contro le destre e cerca un motivo per poterlo fare.
“E chi è convinto ci vota. Ma è chiaro che in questo contesto chi non sta con noi sta con Toti“. Non sto con Sansa ma non sto nemmeno con Toti. Non è con questi giochetti di parole, con la creazione di un presunto “senso di colpa” politico e morale che si può convincere un elettore lontano dal voto magari da tanto tempo a raggiungere la cabina elettorale. La reductio ad unum non può assurgere a forte motivazione per preferire un candidato rispetto ad un altro: termina con l’essere la prima rappresentazione di una campagna elettorale che rischia di giocarsi sul fronte dei singoli e non su quello dell’alternanza dei progetti politici.
Come tanti paventano, penso anche io, purtroppo, che torneranno a prevalere le destre. Auguriamoci di essere smentiti dalle urne. Ma ciò potrà avvenire soprattutto se Toti si affiderà alla figura di Giorgia Meloni, che sa essere una energica sostenitrice degli sragionamenti conservatori, per rilanciare l’immagine di un sovranismo risoluto ma meno sgraziato, grezzo e di grana grossa rispetto a quello salviniano.
Di chi la colpa? Responsabilità dei giallo-rosa, di una lenta costruzione caleidoscopica dell’insieme di colori politici inimmaginabili da assemblare soltanto un anno fa. Miracoli o maledizioni delle disperazioni politiche di chi deve mantenere un potete esecutivo altrimenti perso. Inutile che Sansa, anche oggi nell’intervista a “Il Secolo XIX”, affermi che non vi è traccia di assemblaggio da disperazione, ma che si tratta di una convinta ristrutturazione del settore del centrosinistra.
Ma emerge anche ciò che Sansa tiene a smentire proprio nella sua prima intervista tutta ligure: ossia che siamo ancora una volta innanzi al “tutti insieme disperatamente“.
Nemmeno il PD è più sufficiente per aggregare pochi satelliti porta-voti ed essere competitivo rispetto alle destre.
Ora necessità della replica della compagine di governo sui territori. Del resto, infatti, la misura di tutto ciò viene proprio dalla debolezza nazionale del centrosinistra e dalla curiosa alleanza con il M5S…
Personalmente non critico la figura di Sansa come candidato Presidente della Regione. Ritengo sia un bravo giornalista, una ottima persona che ha dimostrato di avere a cuore, anche sul piano politico, le sorti ambientali e del lavoro. Sarebbe stata una candidatura di prestigio intellettuale, civile e morale anche e soprattutto se si fosse riferita ad un più coerente quadro di alleanza alternativa sia alle destre sia al centrosinistra.
Il problema è l’alleanza che lo sostiene: non posso, per obbedire al mostro del “voto utile“, scegliere una lista di quella coalizione che ripete nel territorio la compagine di governo verso la quale, invece, ho tutte le riserve del caso.
Ormai il tempo per costruire una alternativa tanto alle destre quanto ai giallo-rosa è praticamente esaurito, consumato sotto la sclerotizzazione di funzioni dirigenti che non rispondono più ad una logica di Partito in funzione della creazione di una incisività politica che si rifletta sul sociale attraverso una presenza concreta nell’ambito.
Se così sarà, mi esprimerò solo in favore del candidato presidente. Un voto secco su Sansa e per la prima volta non esprimerò alcun voto di lista. Non è la scelta del “meno peggio” ma un voto di disciplina repubblicana, di salute pubblica nel senso più giacobino del termine. Rubo una felice definizione di queste ora: è semmai la scelta del “quasi meglio” che è riconducibile però solamente alla figura del candidato presidente.
La filosofia dell’alternanza espressa dai confini del sistema maggioritario si dimostra qui ancor più antidemocratica, impedendo alle posizioni politiche minori di poter concorrere senza il ricatto che le vorrebbe – secondo quanto dichiarato anche da Sansa nella sua intervista a “Il Secolo XIX” – automaticamente inserite nel settore avversario Caio se non schierate apertamente con Tizio.
Accontentatevi. Di più, mi spiace non posso fare: nemmeno la campagna elettorale. Vorrà dire che mi concentrerò maggiormente sulla importante partita del referendum, contro il taglio del Parlamento che, anche per colpevole volontà del governo, rischia di essere completamente oscurato dal voto amministrativo regionale.
MARCO SFERINI
17 luglio 2020
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