Nel remake del voto in Senato 162 senatori presenti hanno garantito il numero legale, e 158 voti favorevoli hanno chiuso l’incidente di percorso sulla mancanza del numero legale che aveva portato all’annullamento del voto di giovedì. La presidente Alberti Casellati ha attribuito la vicenda a «un errore nel tabulato prodotto dal sistema di calcolo automatico dei congedi», non imputabile a nessuno. Una tesi piuttosto difficile da sostenere, anche se sono eccessive le polemiche su presunti brogli.
Che il governo sia salvo farà o meno piacere alle «contrapposte tifoserie». Ma un risultato negativo del voto c’è, nel disco verde all’election day in settembre. Ci si avvia a votare nel medesimo giorno per le regionali, le comunali, e il referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari. Un esito fortemente voluto da M5S, che spera di ottenerne il doppio vantaggio di far salire la partecipazione al voto referendario, che si prevede bassa, e di lucrare un effetto di trascinamento nel voto regionale e locale dal simultaneo sventolio della bandiera del taglio.
Per M5S si può capire. Ma per gli altri della maggioranza? Per la seconda volta si scambia una riforma costituzionale, destinata a impattare profondamente sulla forma di governo e sull’architettura complessiva delle istituzioni, con la sopravvivenza dell’esecutivo. Era già accaduto con l’approvazione della riforma, giunta all’ultimo e decisivo voto in cui i già contrari sono diventati favorevoli.
Lo vediamo ora nell’accorpamento dei voti, che ha condotto a sacrificare i molti e validi argomenti contrari all’election day.
Il taglio dei parlamentari è una riforma di grande rilievo e per di più sbagliata, come è già stato ampiamente argomentato su queste pagine, e non è necessario ripetere. Ma proprio perché la riforma è sbagliata il passaggio referendario diventa cruciale. È indispensabile poter illustrare efficacemente le ragioni del No, con una campagna elettorale adeguata, che però con l’election day diventa impossibile. L’obiettivo di un voto informato rimane irraggiungibile.
Con l’effetto ultimo, vista la mancanza di un quorum strutturale, di una riforma costituzionale di grande rilievo conclusivamente approvata da una frazione del corpo elettorale con un voto largamente inconsapevole. Ma pare che a chi siede oggi in parlamento questo non interessi poi molto.
Avremo due scenari. Il primo. Nelle regioni e nei comuni in cui si vota, lo schiamazzo elettorale coprirà qualsiasi argomento che non abbia relazione diretta con le questioni locali. Siamo ormai abituati a elezioni in cui colluttano decine di liste e centinaia di candidati, tutti tesi alla ricerca spasmodica di un proprio consenso personale. Qualcuno pensa che faranno campagna sui temi referendari, o che per quei temi residui uno spazio per l’illustrazione o l’ascolto?
Il secondo. La campagna referendaria si farà d’estate, sulle spiagge e nei luoghi di vacanza, con tutti gli eventuali limiti ancora sussistenti per assemblee, comizi, assembramenti e simili. Quale attenzione e che livello di partecipazione si potrà in tal modo sollecitare laddove non si vota per regioni e comuni?
Ne viene un voto referendario a macchia di leopardo, formalmente uguale, ma per molteplici motivi sostanzialmente diseguale nella consapevolezza dei temi in discussione. Comitati per il No e associazioni, hanno con insistenza chiesto che il voto referendario fosse separato da quello regionale e locale.
Da ultimo l’Anpi sottolinea che in tal modo si «soffoca» il referendum. Auspichiamo che sia possibile porre la questione in corte costituzionale. La richiesta di separazione è giustificata, soprattutto considerando che sono in alto mare i «correttivi» della riforma attraverso una nuova legge elettorale, che pare da ultimo addirittura allontanarsi ancora perché pezzi della maggioranza vogliono mantenere la legge vigente, e l’eliminazione della base regionale per il Senato.
È singolare che il parlamento meno rappresentativo della storia repubblicana voglia diventare ancora meno rappresentativo. In fondo, era superfluo che mancasse il numero legale in Senato. Abbiamo un parlamento che autocertifica di non esserci.
MASSIMO VILLONE
foto: screenshot