Come ogni compleanno è il momento per fare il bilancio della propria vita, così anche il genetliaco della nostra Repubblica è sempre quel giorno dell’anno in cui cadono le riflessioni su ciò che è stato, su ciò che poteva essere e su ciò che proprio invece non ha trovato realizzazione.
E’ un po’ come quando prepari una ricetta di cucina: hai davanti le dosi scritte, magari anche le fotografie che ti illustrano i vari passaggi; oppure, visto che siamo in tempi moderni (siamo sempre in “tempi moderni“, ma questo è un segreto. Non ditelo a nessuno… turberebbe la psiche di molti…), un “tutorial” preso da You Tube.
Ci provi; ci metti tutto il massimo sforzo possibile ma, alla fine, il risultato non è esattamente quello che ti aspettavi: la torta dolce o salata, l’ottimo piatto (vegetariano è meglio!) che hai preparato non è come quello che un bravo fotografo ha immortalato sulla rivista che leggevi o che l’ottimo chef stellato ti ha appena mostrato su Internet.
Così va il mondo: replicare è già, di per sé, molto complicato, perché bisogna seguire tutte le tecniche del caso, senza sbagliare tempi di cottura, dosaggio degli ingredienti, manipolazione delle materie prime e così via…; applicare, invece, qualcosa di completamente nuovo è, poi, una vera impresa storica, titanica, monumentale.
Per quanto impegno vi si metta, per quanto siano ottime le intenzioni tradotte in princìpi della massima espressione dei diritto italiano, l’applicazione dei medesimi è un po’ come la ricetta delle torta replicata dalle lezioni del grande chef: nulla trova mai veramente piena corrispondenza tra pensiero e azione, tra idea e concretizzazione della medesima nella quotidianità della vita di un popolo.
Deve essere apparsa un po’ così la straordinaria storia della nascita della Repubblica Italiana ai Padri Costituenti che l’hanno vissuta in quel lontano giugno di 74 anni fa: con una nazione che usciva da una dittatura ultraventennale, da una divisione del Paese causata dal regime fascista, dalla guerra proclamata da Mussolini, portata avanti con Hitler e Tōjō, finita nella decadente, cupa e nebbiosa val padana in cui si era rifugiato l’ultima speranza delle camicie nere, la ridotta del fanatismo più crudele della tirannia omicida.
Dopo il referendum del 2 giugno 1946, l’Italia è tutta da reinventare, da riunificare: persino i dati della consultazione sulla forma dello Stato parlano di un Paese profondamente separato nel giudizio ormai storico sulla monarchia sabauda. Il centro-nord vota massicciamente per la nascita della nuova repubblica; il sud, a cominciare dal Lazio, controverte questo dato, facendo sudare il ministro degli Interni Romita che, quando vede sul suo tavolo al Viminale arrivare i dati delle sezioni meridionali, capisce che il grande vantaggio iniziale proveniente dalle aree più proletarizzate del Paese si ridurrà di molto.
La Repubblica Italiana sarà proclamata con 2.000.139 voti di differenza. Umberto II di Savoia, il “re di maggio“, così successivamente definito per aver retto il Paese soltanto un mese con le funzioni regali dopo essere stato nominato dal padre Vittorio Emanuele III “Luogotenente generale del Regno“, attenderà fino all’ultimo le decisioni della Suprema Corte di Cassazione e poi, visto il montare della tensione in tutta Italia tra monarchici da un lato e repubblicani dall’altro (tutto il fronte antifascista, praticamente, esclusi i liberali e parte della Democrazia Cristiana), accetterà l’esilio e partirà per il Portogallo. Come da tradizione familiare.
Allora si dirà, con una certa enfasi giustificata dal passaggio “indolore” sulla forma dello Stato, che l’ultimo residuo di autoritarismo in Italia era stato spazzato via: morto Mussolini, morti gran parte dei gerarchi del regime, cacciato il Savoia e la sua famiglia, la giovanissima Repubblica poteva ora, con l’Assemblea Costituente presieduta da Giuseppe Saragat prima e da Umberto Terracini poi, darsi una Costituzione per edificare solide fondamenta democratiche, egualitarie e persino laiche.
In effetti, il lavoro dell’Assemblea, descritto meticolosamente giorno per giorno dai documenti dell’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che approva uno per uno gli articoli della nuova Costituzione repubblicana, si rifanno ad un preventivo esame della Commissione costituita ad acta: il compito è quello di mediare tra le diverse anime politiche rappresentanti il popolo italiano che, per la prima volta, a suffragio universale ha eletto un organo dello Stato.
Troppe volte si fa della insopportabile retorica patriottarda sulla Costituzione, senza conoscerne veramente le fondamenta e l’origine delle medesime che risalgono all’esperienza della Repubblica Romana del 1849, allorché Pio IX se la diede a gambe a Gaeta, sotto la protezione del Borbone, dopo che il ministro Pellegrino Rossi venne pugnalato a morte dai romani in rivolta contro il potere temporale dei papi.
Bisognerebbe leggere attentamente il testo della Costituzione voluta da Mazzini e che mostrava all’Italia intera, ancora divisa in tanti staterelli, ancora con l’Austria presente nel Lombardo-Veneto, come sarebbe stata quella repubblica da lui voluta per tutta la vita e che comprendeva tutta la Penisola, non certo solo i territori dello Stato della Chiesa.
Le affinità tra i valori espressi dai costituenti romani, nel riflusso dei moti e della Prima guerra d’Indipendenza del 1848, e quelli messi nella nostra attuale Costituzione (pur deleteriamente modificata nel suo Titolo V con una regionalizzazione di competenze – tra le quali la sanità pubblica – di cui oggi si possono vedere i poco lusinghieri risvolti…) vanno oltre la semplice evidenza: sono, per così dire, lampanti.
Una delle migliori pagine di collaborazione nazionale, di moto rivoluzionario vero di un popolo in difesa del proprio Paese dall’attacco delle potenze straniere in soccorso all’appello di quel Pio IX che si era opportunisticamente messo a capo del neoguelfismo italico giobertiano, diventa, esattamente un secolo dopo, la pietra su cui viene eretta quella Repubblica democratica che Mazzini, Saffi, Armellini e tanti altri avevano ricercato nella disperata difesa di Roma nel 1849.
La fine dello Stato liberale nel 1922, la dittatura mussoliniana e la guerra, la guerra civile fino alla Liberazione grazie alla Resistenza antifascista, partigiana, sono tutti passaggi che hanno creato i presupposti affinché la sopravvissuta monarchia sabauda non avesse alcun titolo per dettare condizioni al Paese sulla scelta concernente la forma dello Stato.
Ed infatti, unico caso tra tanti capovolgimenti violenti tra monarchie e repubbliche nel corso della storia e di tante nazioni anche secolari (si pensi all’Inghilterra di Oliver Cromwell e Carlo I nel 1648/49 o alla Francia rivoluzionaria del 1789), questa transizione in Italia avviene mediante la chiamata alle urne per tutto il popolo italiano. Per la prima volta anche le donne depongono le schede nelle urne: una per la scelta tra tenersi i Savoia e affidarsi invece alla nuova via repubblicana; un’altra per eleggere i parlamentari e le parlamentari dell’Assemblea Costituente.
La potenza distruttrice del fascismo, il collaborazionismo monarchico e tutte le trame per evitare una vittoria delle forze socialiste e comuniste nel successivo 1948, quando la Costituzione entrerà ufficialmente in vigore alla data del 1° gennaio, non impedirono al Paese di riconoscere molti errori, troppe accondiscendenze e grandi pavidità delle classi padronali che scoprirono in Mussolini l’uomo che avrebbe, col bastone e con l’olio di ricino, messo a tacere una volta per tutte i comunisti e tutti coloro che impedivano il pieno dispiegarsi dei privilegi dei proprietari industriali e terrieri.
La Repubblica Italiana è, prima di tutto, l’emblema di un riscatto morale, civile e sociale della nazione: Mazzini avrebbe certamente letto con piacere il testo della nostra Costituzione, così somigliante a quella della sua Repubblica Romana. Ma non avrebbe provato lo stesso piacere nel vedere i princìpi della Carta del 1948 così a lungo trascurati, resi lettera morta o inespressa da revanchismi neofascisti, rigurgiti monarchici, trame nere e colpi di Stato tentati sull’onda della Guerra fredda e del confronto tra Est e Ovest, tra presunte libertà da uno e dall’altro lato.
Ancora una volta, il miglior modo di festeggiare la Repubblica è applicarne la sua Costituzione e difenderla dai tentativi di stravolgimento che, ciclicamente, vengono messi in pratica tanto dalle finte sinistre quanto dalle vere destre: al referendum autunnale sul taglio dei parlamentari dovremo dire un NO deciso, per mantenere il Parlamento al centro della funzione legislativa dello Stato e non depotenziarlo.
La democrazia ha un costo e, comunque, costa sempre meno di un aereo supersonico da guerra, di una missione militare in appoggio a quella grande “democrazia“, esportatrice di guerre per l’accaparramento di preziose risorse come gas e petrolio, che si piccano d’essere gli Stati Uniti d’America. La rivolta infiamma. Forse sarà repressa dall’esercito che Trump vuole schierare o i cani che vuole sguinzagliare nel giardino della Casa Bianca se qualcuno ne oltrepassasse la cancellata.
Ed anche questa, se volete, è una grande differenza tra la nostra Costituzione e quella degli Stati Uniti: noi siamo una repubblica parlamentare e non presidenziale. Pensateci, quando sentite urlare i sovranisti: “Il popolo deve eleggere il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei Ministri…“.
Se risponderanno al “popolo” e non più al Parlamento, in quel momento sarà venuta meno, proprio per mano popolare, quel minimo di sovranità popolare che ancora oggi viene in parte temuta quando ci si reca al voto, pur venendo abilmente condizionata dalle facoltose possibilità di intervento mediatico durante le campagne elettorali di quei padroni che scendono in politica e di quelli che restano fuori e continuano a fare i burattinai.
MARCO SFERINI
2 giugno 2020