Dedicato a Silvia Romano
O si rinuncia a domandarsi come possa l’essere umano far emergere dalle sue viscere incoscienziose tanta disumanità e, quindi, si accetta a prescindere che una certa dose di pregiudizi, di odio e di disprezzo albergherà sempre in alcuni di noi, maggiormente o meno che sia, oppure, nel provare a creare le condizioni per una evoluzione sociale e civile ci si ostina a cercare di scovare i semi che generano queste male piante.
Vale tanto per l’azione del singolo che prova a mettersi in gioco che intraprendere questo cammino, tentare quindi di essere di aiuto nei confronti di chi ha bisogno, sostengo per chi è cedevole, conforto per chi è inconsolabile, avanguardia politica per chi è smarrito nella semplificazione estrema delle virtù del capitalismo che fanno di questo mondo quello sì pur pieno di contraddizioni evidenti tra produzione della ricchezza e sua distribuzione conseguente, ma che al contempo deve continuare ad essere guardato (veramente poco “visto“) e percepito come “il migliore dei mondi possibili“.
Perché è sulla “possibilità” che si gioca la partita della solidarietà come fenomeno singolare, che prescinde anche dall’impostazione ideologica, che può essere a-partitica, ma che diviene “politica” nel momento in cui della “polis” ci si interessa e lo si fa pensando non solo al ristretto gioco di sguardi e di ammiccamenti che conosciamo nel nostro limitrofo, ma mandando oltre i confini cittadini e patrii l’interesse conoscitivo dello sviluppo ineguale di questa società.
Nel momento in cui si percepisce d’essere parte di un tutto e non parte estraibile dal tutto, allora si prova istintivamente la necessità di estrinsecare l’umanità che sta in noi, di renderla manifesta affinché anche altri la vedano: non per vanagloria o superbia. Nella maggioranza dei casi si tratta di giovani (e anche meno giovani) che fanno della lotta sociale e della solidarietà sociale un fondamento di vita, una ragione di esistenza, un senso da consegnare alla propria incoscienza di esistere non soltanto per esistere, ma di rendere questa funzione attiva tanto nei propri confronti quanto in quelli degli altri.
Ognuno fa quello che può, si dice. Verrebbe da dire che spesso la possibilità, di cui facevo cenno prima come motore dell’istinto solidale umano e della formulazione migliore della coscienza civile e sociale, oltrepassa anch’essa i propri limiti e si spinge volontariamente in un campo ignoto, pieno di pericolosi pregiudizi.
Lì l’anatema regna sovrano, perché il giudizio – fuori dal contesto della mera opinione – diviene sentenza in-civile e condanna quasi sempre chi viene etichettato come qualcuno che ha sciupato la propria vita per cause ritenute impossibili, provando ad elevare sé stesso sopra le miserie umane e quindi finendo per attribuire all’essere solidale ogni sorta di egoismo immaginabile proprio dall’egoista che pronuncia tutte queste ipotesi e tesi.
Silvia Romano, per questo, dopo essere stata liberata a Mogadiscio, è stata accolta da una ondata di messaggi che erano abbracci virtuali, lacrime segno di commozione e generose, per l’appunto istintive, manifestazioni di affetto. Ma è anche stata fatta oggetto delle solite recriminazioni: “Se l’è cercata. Se non fosse andata in Africa non avrebbe corso alcun rischio“. Oppure ancora: “Quanto abbiamo pagato per farla liberare?“. E così via dicendo.
Certa gente, che si erge a giudice delle azioni umane sempre e comunque, trova disdicevole che una ragazza di vent’anni voglia aiutare “a casa loro” (come asseriscono sovente i sovranisti neofascisti, i razzisti e gli xenofobi depensanti di questo disgraziato Paese) esseri umani che sono nelle maglie di conflitti sanguinosi alimentati da grandi poteri per ottenere grandi interessi commerciali, finanziari e stabilire nuovi equilibri nella geopolitica mondiale nella grande lotta per la supremazia tra continenti, poli di concentrazioni di ricchezze che finiscono per cadere nelle bolle speculative se non trovano spazi di mercato adeguati.
Certa gente ritiene che lo Stato non debba mediare per questi avventurieri della libertà, dell’umanità, della solidarietà. Se la sono cercata. Che è lo stesso metro di valutazione idiota che si adopera quando si scarica la colpa dei propri simili con un esercizio di evitamento delle responsabilità collettive e singolare adducendo, ad esempio, che se una donna viene violentata da un uomo è perché portava una gonna corta, oppure perché era troppo bella e provocante.
Se depensamento deve essere, ebbene lo sia a tutto tondo: dal sovranista che non vede il suo partito in debito con lo Stato italiano per ottanta anni per aver sottratto all’Italia 48.969.617 di euro di rimborsi elettorali ed averli usati a titolo meramente privato; fino al maschio latino che considera la donna colpevole a prescindere e giustifica i suoi istinti senza alcuna remora.
Ma esistono anche casi in cui l’inconsapevolezza, la buona fede si può concedere per evidente capacità di intendere e di volere: pochi, ma esistono. Non si tratta di giornalisti che, ad esempio, scrivono: “Ha picchiato la moglie senza un motivo“. Quale motivo si deve avere per picchiare una donna, per percuotere la moglie? Esiste davvero un giustificato motivo, quindi una “ragione” perché questo avvenga?
Eppure titoli e catenacci di giornale, come quello appena citato, sono frequenti su testate anche di una certa rilevanza, che si fregiano al loro interno di mostrare tutta la loro cultura con inserti pregevoli, che vanno letti e riletti e che stridono però con la faciloneria e il cialtronismo di una informazione che deforma i fatti e che deforma anche i protagonisti dei medesimi rendendo sostenibili comportamenti che percepiamo come possibili anche da parte nostra visto che, almeno questo viene sentito con una certa forza, ci riconosciamo come appartenenti alla stessa specie.
Silvia Romano, ma tante altre donne, sono quotidianamente fatte oggetto di questi insulti travestiti da innocenti scherni, mentre i militari che vanno a fare le guerre sono, a prescindere da tutto, eroi. Da quelli delle Guerre del Golfo a quelli mercenari che aprono il fuoco sui pescatori che si avvicinano troppo alle navi che scortano. Qui viene fuori l’amore patrio per la divisa, per il ruolo di “difensori” della comunità, della giustizia e dell’ordine in Italia e nel mondo.
Pochi giorni fa leggevo in una rubrica di lettere di un settimanale “nazional-popolare” le parole di una signora che elogiava il “lavoro” del soldato: “Spendono la loro vita per noi“. Ne sono convinti molti giovani che si arruolano e che ritengono così di servire la comunità e il loro Paese e finiscono a pattugliare le strade di Herat e, perché no, anche quelle delle principali città somale. Poi si scoprono innocentissimi giochi di tortura fatti con fili del telefono attaccati ai testicoli dei prigionieri; bottiglie sodomizzatrici e altri divertimenti degni del più buio angolo dell’inumanità che rimandano alla ferocia di molti servizi segreti e apparati di intelligence: a cominciare dalla Gestapo, passando per tutti quelli venuti dopo. Ad oriente e ad occidente. Nessuno escluso.
Chi come Silvia Romano, pacificamente, si spinge con la sua organizzazione umanitaria in terre depresse, ostili e martoriate dal bellicismo dei talebani del Corno d’Africa, non ha nulla di encomiabile agli occhi di chi invece ammira le truppe schierate al suono di battaglia. Silvia era, è e rimarrà un ingombro, un fastidio, una estraneità all’appartenenza nazionale perché è andata appunto oltre la nazione stessa, si è calata nel mondo e ha provato – a modo suo – a fare qualcosa per renderlo meno orribile.
Non c’entra qui la lotta di classe, l’anticapitalismo, la voglia di riscatto sociale e civile dell’intera umanità: ma c’entra la coscienza, la consapevolezza che la rivoluzione nasce dall’inconoscibile, non è prevedibile, perché emerge dalla presa di consapevolezza delle proprie condizioni di vita e dalla voglia di riscatto che ne consegue. Giustamente asseriva Ghandi: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo“.
Ecco, Silvia ha fatto questo e ognuno di noi dovrebbe agire in questo modo: se ritiene di essere uno sfruttato chiamato anche “lavoratore“, deve sentirsi prima di tutto “sfruttato” in quanto tale e reagire di conseguenza. Se si pensa che quanto accade nel mondo sia ingiusto, si deve diventare in qualche modo sostanza di quella forma mentis e lottare per combattere la miseria del pensiero affinché sia possibile combattere anche la miseria della vita.
La miseria del pensiero è quella di chi biasima Silvia Romano perché, tutto sommato, riesce a concepire la miseria della vita prodotta da questa economia che viene accettata come incontrovertibile: come “naturale“. E’ l’eterno ritorno del “pensiero unico” che trastulla e solletica l’egoismo di ciascuno di noi e prova a farlo prevalere su una umanità che è quell'”altro mondo possibile” di cui andiamo parlando, come comunisti, da più di duecento anni.
Persone come Silvia fanno fare all’umanità un passo verso quel mondo. E un passo è sempre meglio dell’immobilismo o del voltarsi indietro e stare comodi nelle certezze del passato tutte piene di preconcetti, di divisioni etniche, di odio, razzismo, classismo, fobie sessuali e patriarcalismo.
Bentornata, dunque, Silvia. Quel passo verso un mondo nuovo e migliore non è stato fermato e continuerà ad avanzare.
MARCO SFERINI
10 maggio 2020
foto: screenshot