Nel pieno dell’emergenza sanitaria impazza il dibattito sui “social” in merito alle differenti ordinanze emanate e ai decreti governativi sulle nuove norme introdotte per gestire la tanto agognata “Fase 2“. Forse molti non lo sanno, ma stanno dibattendo, seppur con grande faciloneria (giustificata dall’approccio consueto di molti cittadini sulla base del “sentito dire” e, un po’ di più – come alibi indiretto – dalla non conoscenza dei fondamentali del diritto costituzionale).
L’errore di Conte, e quindi del governo, è stato in questi giorni tecnico-comunicativo: tecnico perché non ha stabilito politicamente quali fossero i margini di eventuale emendabilità delle disposizioni dell’esecutivo da parte dell’egoismo local-regionalista; comunicativo verso la popolazione che, infatti, si trova a dover stabilire, in sostanza, a chi dare retta, quali regole seguire.
Le regole possono anche essere articolate, per comprendere nel loro insieme tutti gli aspetti della quotidianità della popolazione, della sua eterogeneità in tanti ambiti, settori lavorativi, commerciali, culturali, affettivi. Ma la comunicazione deve essere chiara, diretta e non può divenire l’elenco delle misure previste da questa o quella ordinanza, punto dopo punto.
Le ordinanze regionali e comunali si sovrappongono tra loro, si impalmano a volte, si contraddicono altre volte proprio con quelle governative. Dovremmo dunque domandarci come mai tanta confusione normativa. Come mai le istituzioni non sono in grado di uniformare le direttive sanitarie valide su tutto il territorio della Repubblica con quelle che portano a specificazione determinate istanze locali.
Nell’ordinamento della nostra Repubblica esistono criteri per stabilire quale norma prevale su un’altra norma nel caso questa sia simile o addirittura uguale o contraria se tratta un medesimo argomento, tema o gestione di una situazione particolare, come ad esempio una emergenza da pandemia virale.
Il primo criterio è quello “cronologico“: già nel diritto romano si prefissava, tra le altre regole in merito, che “Lex posterior semper abrogat legem priorem“. Il che significa che la legge precedentemente fatta viene superata dalla nuova. Principio che introduce anche la non retroattività della sanzione o della pena se il fatto che è diventato illegale prima della norma appena introdotta non era considerato tale. Ne consegue che si può essere penalmente perseguiti (ed anche civilmente) solo se la legge “attuale” lo consente.
Il secondo criterio per la valutazione della priorità di una norma rispetto ad un’altra è quello forse più istituzuonale e costituzionale, quello “gerarchico“. In questo caso si applica sempre una reminiscenza del diritto romano che recita: “Lex superior derogat inferiori“. E’ comprensibile anche in latino, ma significa che la legge superiore abroga la legge inferiore, laddove superiorità ed inferiorità derivano dagli enti che emanano leggi, regolamenti, ordinanze (che sono strumenti giuridici molto differenti fra loro per impatto nei confronti della popolazione, del territorio, quindi sia di persone sia di cose).
E’ evidente che, riprendendo anche in mano la nostra Costituzione, all’articolo 114 del celeberrimo Titolo V riformato in senso regionalista a suo tempo (gli effetti si vedono proprio in questa grande crisi sanitario-istituzionale):
“La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.
Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento.“.
Nel nostro Stato a base regionalista (non federalista come la Germania o gli Stati Uniti d’America, nè tanto meno confederativo come la Svizzera), le leggi, sempre secondo la Costituzione, possono essere fatte solo da due enti: lo Stato e le Regioni. Tuttavia queste ultime non sono soggetti che possono legiferare su tutto come invece è prerogativa dello Stato (che delega alcune competenze al decentramento amministrativo per consentire un migliore adeguamento delle normative a seconda delle specificità dei territori locali). Le Regioni non hanno alcuna magistratura, né tanto meno hanno un esercito o il comando sulle Forze armate. Hanno delle loro polizie locali, garantiscono una serie di funzioni in merito alla gestione burocratica (e politica, quindi) delle scuole, della sanità, della protezione civile.
Ma è del tutto evidente che prima viene l’interezza della Repubblica rappresentata istituzionalmente dall’ente statale nazionale e poi vengono le Regioni che compongono lo Stato che, quindi, è superiore alle singole amministrazioni regionali in quanto ad emanazione di normative che, per l’appunto, valgono su tutto il territorio nazionale.
Uno Stato centralizzato non è per forza sinonimo di autoritarismo. Semmai è proprio il contrario. La Repubblica funziona se lo Stato aderisce alla sua forma e se la forma, dal suo canto, si rispecchia nella funzionalità dei livelli di potere. Ma se la Repubblica e lo Stato non coincidono, allora resterà solo una mera forma di una unità nazionale in materia di diritti e di doveri (e di sviluppo dei primi quanto di formulazione dei secondi). Questo porta ad un pericoloso rafforzamento delle istituzioni locali, davanti ad un governo incapace di coordinare proprio le funzioni fondamentali dello Stato italiano che discendono a cascata da Roma fino al più piccolo Comune della Repubblica.
Ne consegue una inquietante vanificazione della formulazione costituzionale dell’eguaglianza di tutti i cittadini tanto davanti alla legge quanto l’incrinarsi delle certezze sociali, delle garanzie e delle protezioni che tutelano la popolazione anche da sé stessa, dal pericolo di torsioni autoritarie nascoste dalle più candide parole di “progresso” e “sviluppo“, “modernità” e “ricchezza“.
Non è, infatti, soltanto sul terreno del diritto costituzionale che si può affrontare l’attuale particolarizzazione delle decisioni, la frantumazione delle disposizioni in ordinanze che si contraddicono e si fanno pernacchie l’una nei confronti dell’altra.
La questione è molto più profonda e delicata: si tratta di far avanzare un senso civico che manca, che non si è costruito se non nel dopoguerra, appena terminato il conflitto, dalla Resistenza alla Liberazione: il senso di appartenenza ad una causa (con al C maiuscola) portava i combattenti partigiani e i civili a sentire tutta l’importanza del benessere comune da riconquistare e, in molti casi, da inventare. Ma non possiamo sempre aspettare che sia la presenza di un nemico comune a far saltare fuori un civismo repubblicano, laico e democratico che abbia magari anche qualche pulsione rivoluzionaria nel suo divenire tale.
Oggi, “ai tempi del Coronavirus“, il senso civico è stato dimostrato da molti prima ancora che lo Stato intervenisse, tralasciando le diatribe costituzionali sulla prevalenza delle ordinanze. Ma vi è anche una larga fetta di popolazione che non bada all’interesse generale – quindi anche al proprio – ma agisce per mero egoismo, col supporto del peggiore alibi qualunquista che si possa sentire, vedere, leggere: “Intanto lo fanno tutti…“.
La confusione generata dall’azione individuale dei singoli Presidenti di Regione, che autorizzano la pesca, la corsa oltre i 200 metri ma non oltre il comune di residenza, l’attività ippica e la cura del proprio yatch (è noto che la stragrande maggioranza degli italiani ha la sua bella grande barchetta da diporto), distorce il messaggio che arriva alla popolazione, che tende per sua natura a semplificare senza bisogno che altri lo facciano per lei, è uno soltanto: siamo già nella cosiddetta “Fase 2” e, basta solo tenersi un po’ lontani… tutto il resto è consentito. Piano piano, a poco a poco, ma si può fare la passeggiata al parco, si può uscire trovando sempre più negozi aperti, ci si potrà anche recare presto dal parrucchiere, oppure al museo.
Il nuovo decreto è fatto su misura per le grandi industrie che devono ripartire con tutta la loro filiera produttiva e, di conseguenza, si fa notare dalle parti del governo, non potranno non riaprire tutti quei negozi e tutte quelle attività che smerciano i prodotti di queste aziende. In mezz’ora di spiegazione delle nuove norme, e nella restante conferenza stampa tenuta a Palazzo Chigi, Giuseppe Conte ha tracciato la filosofia che ha ispirato questo pacchetto della progressiva riapertura: seguire le direttive della Confindustria e non quelle più rigide ma cautelative della salute pubblica dei virologi e degli scienziati dell’Istituto Superiore di Sanità secondo cui la riapertura andava rimandata ancora almeno per un mese. Almeno.
La contrizione addolorata e le scuse alla Conferenza Episcopale Italiana sull’impossibilità di consentire lo svolgimento delle messe pareva parola di un governatore romano dello Stato della Chiesa e non del Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana. Imbarazzante a dir poco.
La libertà di culto non ha poi una valenza uguale rispetto alla libertà di pensiero e di azione, ad esempio, politica? Potremmo anche noi comunisti rivendicare l’esigenza di riaprire le nostre sedi e di riunirci nuovamente per fare politica – attività che non è del resto mai stata dismessa a livello istituzionale! – ma ce ne asteniamo perché, a differenza della CEI (che non è la voce del Pontefice, che, infatti, segue la linea della cautela e del rispetto delle disposizioni sanitarie italiane), riteniamo prioritario il bene comune tanto più se si tratta di pochi mesi di interruzione di determinate attività pubbliche. L’esigenza dei vescovi italiani rimanda ancora una volta alla primazia dell’etica cattolica rispetto a quella laica, dettata dalle istituzioni repubblicane.
Probabilmente c’è ancora la sensazione che accanto ad un potere secolare ne esista uno temporale e si prova a forzare la mano ad uno Stato laico e democratico che troppe volte ha ceduto alle pressioni del Vaticano su piani concernenti l’educazione, l’istruzione, finanziando con soldi pubblici le scuole private e confessionali, nonché mostrandosi subalterno ad una impostazione moralistica di una Chiesa che pretende di essere “universale” (quindi “cattolica“) tanto in Italia quanto nel resto del mondo.
Siamo sempre su quell’asse di disequilibrio antisociale: tutela degli interessi padronali e di quelli della Chiesa per garantire una stabilità sociale che sia anche stabilità morale, percezione interiore – richiamandosi alla protezione divina – della sostenibilità di una fase critica che stava iniziando a crepare le granitiche certezze dei sostenitori dell’economia di mercato, soprattutto quelli inconsapevolmente assorbiti dal sistema dello sfruttamento e delle merci.
La “Fase 2“, pertanto, è prudente ma è anche molto vincolata ad una repressione di comportamenti che sarebbero forse più corretti se ricevessero un messaggio chiaro, netto, non interpretabile dalle istituzioni repubblicane, dal governo per primo. Nessuno di noi vuole obbedire, ma spontaneamente uniformarsi a regole che siano generate del buon senso e da criteri scientifici che garantiscano la bontà dei sacrifici che tutte e tutti, in diversi modi, stiamo facendo.
MARCO SFERINI
28 aprile 2020
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