Ed è così che in un paese in cui i lettori di più di un libro all’anno sono merce rara e dove il primo pensiero di ogni abitante non è certo quello di andare per musei, improvvisamente arriva un alieno – sotto forma di virus invisibile – e la cultura diventa l’unica salvezza possibile. Una spacciatrice di sogni in tempi di quarantena forzata per tutti. La sola dispensatrice di futuro radioso quando mala tempora currunt.
All’inizio, quello culturale – peraltro permeato da molto lavoro precario e giovanile – è stato il primo settore a chiudere, a sospendere festival, mostre, spettacoli, concerti, ad autoimmolarsi per responsabilità civile e per decreto.
Poi, il bisogno di nutrimento di immaginario ha prevalso, scardinando molte enclavi. A cascata, sono comparsi avvisi di tour virtuali nei più grandi musei del mondo, focus su capolavori, interviste e documentari su piattaforme free, libri da scaricare in dono, audioromanzi letti da attori e attrici, quotidiani in omaggio. Tutto consultabile e voracemente atteso da un’umanità smarrita.
Oltre a godere di questo inaspettato tesoro a disposizione, si potrebbe fare di più. Per esempio, come avvenuto per la sanità pubblica – prima portata al collasso con ripetuti tagli e ora la Grande Madre catartica di tutti noi – si potrebbe ragionare sul fatto che l’esistenza non cammina di pari passo con le banche e gli algoritmi, ma con i gesti e i pensieri immateriali che ci regalano film, storie, spettacoli, opere d’arte
Di conseguenza, sarebbe opportuno che questa riflessione (adesso senz’altro condivisa, ma a immediato rischio di «oblio») rimanesse a tenere dritta la barra del timone dei governi, soprattutto quando verrà loro voglia di abbattere la scure sul settore, non di «prima necessità».
Il binomio cultura-economia non è quello giusto: dal divano di casa, possiamo dire che ben più reale è cultura-vita felice.
ARIANNA DI GENOVA
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