Lavorare con l’inconscio se tramonta il simbolico

Alcune riflessioni di Althusser sul comune statuto epistemologico della psicoanalisi e del marxismo vengono in mente nel leggere l’ultimo libro di Franco Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i...

Alcune riflessioni di Althusser sul comune statuto epistemologico della psicoanalisi e del marxismo vengono in mente nel leggere l’ultimo libro di Franco Lolli, Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi «domandanti» (Poiesis, pp. 204, euro 18): entrambe sono scienze conflittuali, attraversate sin dalle loro origini da scissioni, da sempre minacciate dal rischio del revisionismo e dalla neutralizzazione del loro nucleo sovversivo. Più di uno studioso lamenta, da tempo, come una parte della galassia psicoanalitica abbia smarrito il suo spirito originario, omologandosi al discorso pubblico dominante, in un bizzarro mix di ricerca di saggezza, istanze moralizzatrici e nostalgia religiosa.
Di questa tendenza all’omologazione Lolli – analista di orientamento lacaniano – individua la manifestazione più evidente nella opinione comune, in Francia come in Italia, secondo la quale le principali manifestazioni della psicopatologia contemporanea sarebbero in relazione con il presunto declino dell’autorità paterna.

Dal punto di vista epistemologico Lolli evidenzia le basi fragili di una teoria che per essere tale deve possedere concetti e oggetti teorici propri, pena la caduta nell’empirismo (culturalista, ambientalista, evoluzionista), così come accade, appunto, nelle concettualizzazioni elaborate dai cosiddetti declinisti. Simili analisi, come insegna il caso del giovane Lacan, il Lacan «durkheimiano» dei Complessi familiari studiato da Markos Zafiropoulos, sarebbero importate da altri domini disciplinari, in particolare dalla sociologia. Di analitico sembrano avere ben poco, come ben poco aveva l’idea, elaborata dai neo-freudiani come Karen Horney, che il disagio dell’essere umano sia il correlato diretto di un certo tipo di funzionamento sociale, e che già Adorno negli anni Quaranta denunciava per il suo «realismo semplicistico».
Quel che è certo è che per quanto mutino le condizioni storiche e culturali nelle quali si svolge l’esistenza dei singoli, questi hanno sempre, anche quando il sembiante sociale dice il contrario, da confrontarsi con la stessa questione che li inquieta: «Come conciliare l’esigenza di soddisfazione personale del proprio desiderio con le richieste di rinuncia alla piena soddisfazione». Non esiste civiltà, nemmeno quella egemonizzata dal discorso del capitalista, che non passi per l’interdizione e la regolazione del godimento.

Se le cose stanno così, è chiaro perché la crisi dell’autorità paterna in cui versa il mondo occidentale venga fatta coincidere con la crisi dell’ordine simbolico tout court. È una questione che Lolli analizza sulla scia di autori come Michel Tort e Jacques Hochmann: questa convergenza tra declino dell’autorità paterna e la crisi della civiltà non ha nulla di concettualmente significativo, limitandosi a veicolare qualcosa che non ha atteso la psicoanalisi per farsi strada: il pregiudizio, millenario quanto il monoteismo, secondo il quale la donna, in quanto madre e senza la regolazione del suo desiderio operata dal padre reale (ma anche simbolico), non sarebbe in grado di soggettivare il neonato.
Fino a che gli analisti si affideranno a una teoria come quella del declino paterno impediranno a se stessi di cogliere l’autentico agente della mutazione sociale che si trovano a fronteggiare: la fine della psicoanalisi come pratica riservata a una classe sociale privilegiata, per decenni confinata all’interno della borghesia e dei suoi valori. I pazienti di Freud, i personaggi che ne riempiono i resoconti clinici, erano «persone colte, disponibili alla parola, interessate al sapere».
La congiuntura storica attuale – segnata com’è da una profonda miseria simbolica e dall’erosione del valore dialettico della parola a favore di messaggi rapidi e facili da consumare, carente di narrazioni identitarie emancipative e di trascendenze ideologiche, egemonizzata dalla logica dello spettacolo, dal ritorno del religioso in forme regressive e tribali, – è ben diversa non solo da quella «vittoriana» in cui ha operato Freud, ma anche da quella che ha visto protagonista Lacan, l’Europa post-bellica, in un ambiente sociale ristretto e culturalmente elevato.

Da una parte, dunque, Lolli si propone di tenere fermi quelli che, ricorrendo a un linguaggio di origine althusseriana, definisce «invarianti psicoanalitici», quei presupposti teorici «ai quali il carattere innovativo dell’intera elaborazione freudiana – e lacaniana – può essere sostanzialmente ricondotto», pena la trasformazione della psicoanalisi in una psicoterapia in più da aggiungere al variegato mercato delle professioni di cura.
Dall’altra, invita a riflettere su «una riconsiderazione profonda della tecnica che sia in grado di trattare domande diverse da quelle in risposta alle quali la psicoanalisi è nata». E si arriva così alla questione di fondo: quali sono le condizioni di possibilità della psicoanalisi in un contesto profondamente mutato rispetto a quello che l’ha vista nascere ed evolvere? Da questo punto di vista, la stessa rivendicazione di inattualità lanciata da Lolli sembra assumere un preciso valore teorico, come una sorta di sospensione di qualsiasi testimonianza sensoriale a favore dell’esistenza stessa della psicoanalisi. Che il linguaggio psicoanalitico abbia permeato di sé il senso comune è un dato incontestabile. Se, invece, la psicoanalisi si sia fatta effettivamente senso comune, e se possa mai diventarlo: questo è evidentemente un altro discorso.

LUIGI FRANCESCO CLEMENTE

da il manifesto.it

Foto di 준 노 da Pixabay 

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