Lo aveva annunciato l’ex presidente Obama, per metterlo in stand by con l’avanzata dello Stato islamico. Il suo successore Trump lo aveva promesso in campagna elettorale.
Ora il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq potrebbe realizzarsi nel modo meno atteso: su ordine del governo di Baghdad, segnando – potenzialmente – la fine della presenza quasi ventennale Usa nel paese. Una vittoria indiretta ma enorme di Teheran, l’ultimo colpo del generale Soleimani.
Il primo passo lo ha compiuto domenica scorsa il parlamento iracheno, votando una richiesta non vincolante all’esecutivo del dimissionario (da due mesi) premier Abdul Mahdi: via i marines dall’Iraq per palese violazione dei termini dell’accordo di cooperazione militare. Dovevano addestrare i soldati contro l’Isis e non violare la sovranità dello Stato uccidendo un alleato.
Per ora il ritiro è solo teorico, in attesa di un intervento governativo che cancelli quell’accordo. Intervento che non dovrebbe tardare: è stato lo stesso Abdul Mahdi a promuovere l’iniziativa parlamentare, con la sola assenza di partiti curdi e sunniti, e ieri ha invitato l’ambasciatore Usa Tueller a collaborare nell’implementazione del ritiro.
Ma i primi effetti della rabbia irachena si vedono già, sotto forma di restrizioni al movimento imposte alle forze della coalizione internazionale: «Le autorità irachene hanno preparato un meccanismo per il ritiro delle truppe Usa – ha detto il capo di stato maggiore iracheno Abdul Karim Khalaf, citato dalla Tass – Le funzioni della coalizione internazionale saranno limitate solo al ruolo di consultazione, la consegna di armamenti e l’addestramento. Le loro forze armate se ne andranno. Da ora gli è proibito qualsiasi movimento, sia via terra che via aerea».
Cinque le basi americane in Iraq, secondo la mappa fornita dal Congresso: tre intorno Baghdad e due a nord, al confine e dentro la Regione autonoma del Kurdistan. Ospitano 5.200 militari. Il cui destino è in bilico, insieme a quelli della Nato, che ieri si riuniva a Bruxelles d’urgenza per decidere che fare.
Nel tardo pomeriggio la risposta: «Al momento abbiamo sospeso il nostro addestramento sul campo – si legge nella nota del segretario generale, Jens Stoltenberg – E stiamo prendendo tutte le precauzioni necessarie a proteggere la nostra gente. Siamo in contatto diretto con le autorità irachene».
Il presidente Trump, come fa da giorni, ha scatenato le sue ire anche contro quello che credeva alleato strutturale: «Se l’Iraq ci chiede di andarcene in modo non amichevole – ha detto dall’Air Force One – lo puniremo con sanzioni come non le ha mai viste. Quelle iraniane al confronto sembreranno miti».
L’iniziativa irachena brucia, le sanzioni a Trump non bastano. Vuole indietro i dollari americani («Abbiamo una base aerea estremamente costosa laggiù. Costa miliardi di dollari. Non ce ne andremo finché non la pagheranno», ha detto dimenticando il denaro accumulato tra compagnie petrolifere e industria bellica durante e dopo l’occupazione).
La ragione di tanta rabbia la spiega bene Qais al-Khazali, capo della potente milizia sciita filo-iraniana Asaib ahl al-Haq, vicinissimo a Soleimani, ripreso dal New York Times: «Gli Stati uniti hanno un solo colore, quello militare, è lì che spendono i loro soldi. Ma l’Iran ha tanti colori, in cultura, politica, religione».
In mezzo a mosse unilaterali, tentativi di salvare vite politiche (a partire da Abdul Mahdi), terremoti di alleanze, c’è il popolo iracheno. Il più preoccupato, nell’immediato, dall’escalation. Ai primi giorni di smarrimento seguono rinnovate manifestazioni, parte di quella mobilitazione popolare che dal primo ottobre sta cambiando il volto dell’Iraq.
Domenica la protesta ha intonato slogan precisi, diretti: l’Iraq non sarà il campo di battaglia della guerra Usa-Iran, non ne pagherà il prezzo. Risuonavano a Baghdad, in piazza Tahrir, le parole «Tenete la vostra guerra fuori da qui».
A sud, a Diwaniya, in centinaia hanno gridato «No all’Iran, no all’America”, mentre a Nassiriya si sono registrati scontri tra i partecipanti a una processione di commemorazione di Soleimani e al-Muhandis (il comandante iracheno delle Kataib Hezbollah, ucciso nello stesso attacco) e i manifestanti che volevano impedirne la marcia.
Tre i feriti tra i secondi, riporta l’Afp, quando i sostenitori iraniani hanno aperto il fuoco. Pietre su una processione per Soleimani anche a Bassora.
CHIARA CRUCIATI