8.45 di una domenica mattina di metà novembre. Sotto le piccole luci accese della mia scrivania, sintonizzo il televisore su qualche canale “tuttonotizie” (scusate, ma a me gli inglesismi creano una sorta di fastidiosa orticaria fino a che trovo un termine italiano che possa essere usato per sostituirli e scalzare la moda del momento…). Mi fermo su Sky Tg 24, canale 50 del digitale terrestre, e ascolto un servizio sull’ennesimo attentato alla pizzeria di Giovanni Impastato.
Gliel’hanno nuovamente incendiata, perché la mafia esiste ancora, perché il nome degli Impastato fa ancora paura: evoca non soltanto Peppino e Radio Aut ma tutto il movimento che ne è seguito, tutti i libri che su lui sono stati scritti e le tante manifestazioni che si sono svolte in questi anni, proprio nel suo nome e nel nome di tutti coloro che hanno lottato contro la “montagna di merda”.
8.47 di una domenica mattina di metà novembre: il servizio di Sky Tg 24 va avanti e mostra la Casa Museo intitolata a Peppino e a Felicia Impastato. Figlio e madre, che vissero anche convulsamente quegli anni di ribellione ad uno stato di cose che escludeva la legalità dello Stato in una terra che si era lentamente trasformata dal baronato delle campagne un po’ latifondiste e un po’ ancora medievali del regno già dei Borbone ad una specie di colonia americana dove imperversavano i rapporti tra la mafia locale e quella d’oltreoceano.
Sarebbe facile banalizzare la figura di Felicia e farne una classica “donna coraggio“. In realtà, Felicia fu qualcosa di più di una donna che prese coraggio: fu per tutta la vita una madre cui avevano fatto saltare il figlio con un carico di tritolo posto sulle rotaie della ferrovia.
Fu una moglie che vide il marito spegnersi e consumarsi nella tragedia della ribellione tanto al modello familistico della Sicilia mafiosa degli anni del dopoguerra e che si accorse di non essere sola, ma di avere intorno tanti altri figli, tutte le compagne e tutti i compagni di Peppino che affiancarono Giovanni nella lotta per la verità e nella lotta continua contro la criminalità organizzata che si faceva anti-Stato.
8.48 di una domenica mattina di metà novembre: la breve intervista a Giovanni Impastato finisce e si entra nella Casa Memoria di Cinisi dove fuori campeggiano, oltre alla targa, ritratti di Peppino e Felicia, volantini, adesivi di tante associazioni, come Libera di Don Ciotti, di comitati di base, della Democrazia Proletaria d’un tempo… ma dentro alla casa-museo ci sono due bambini.
Sembrano all’inizio dei visitatori comuni. Invece, spiega la giornalista fuori campo, sono tra i più fervidi conoscitori della storia di Peppino e la raccontano a tutti coloro che vengono a visitare la Casa della Memoria: si esprimono con una meravigliosa scioltezza di parole, senza tentennamenti. Sanno bene di cosa parlano e sono convinti che si possa persino ricostituire una moderna, nuova “Radio Aut“; proprio come quella che Peppino e i suoi amici avevano creato per denunciare gli intrighi mafiosi, per sbeffeggiare
“Tano Seduto“, per irridere amaramente il potere dello Stato che nulla faceva perché era incapace di affrontare la mafia oppure era colluso con essa.
Questa domenica di novembre sarebbe “passata così“… grigia nel suo rispecchiare pienamente la stagione fredda, che ti costringe a rinchiudere l’anima dentro pesanti cappotti di indolenza e di rassegnazione. Invece questi due bambini, di cui non saprei dirvi il nome, hanno contribuito a riaschiararla, regalandomi la fiducia che davvero bisogna sempre ricominciare da capo quando tutto pare perduto. Come diceva Gramsci. Come anche noi dovremmo dire e fare oggi. Anche nel di Felicia e di Peppino.
MARCO SFERINI
17 novembre 2019
foto tratta dalla pagina Facebook della Casa Memoria “Felicia e Peppino Impastato”