L’Ilva di Taranto non è soltanto il più grande stabilimento siderurgico del Vecchio Continente, ma è la rappresentazione tornata di terribile, tremenda attualità di una classe operaia che esiste, che resiste ma che ai microfoni dei tanti cronisti che la assediano si dice “stanca“, perché troppe volte illusa e disillusa con promesse che sono state disattese da scudi penali innalzati a protezione dei padroni (ArcerlorMittal, gruppo franco-indiano che ha “affittato” la proprietà della grande azienda) dal governo Renzi, dichiarati decaduti dal governo sovranista e decretati nuovamente attivi dal Conte 2.
Salvo poi arrivare alla mancata conversione in legge da parte del Parlamento e, pretesto succulento oggi per abbandonare la fabbrica in perdita di oltre 2 milioni e mezzo di euro al giorno, per investimenti annui nel comparto dell’acciaio diminuiti dagli iniziali 6 miliardi e mezzo agli attuali programmati 4 miliardi.
10.000 operai tarantini e altri 10.000 circa nell’indotto che va da Genova a Novi Ligure e comprende molti altri “collaboratori” (aziende quindi che rischiano di entrare in crisi al pari dell’Ilva).
La storia dell’Ilva, brevemente riassunta, ci dice che la classe lavoratrice ha perso fiducia nelle trattative istituzionali e che non distingue un governo giallo-verde da uno giallo-rosso. Ciò che viene prepotentemente a galla è la prepotenza con cui, seppur la notizia fosse nell’aria da mesi, ArcelorMittal dichiara di non poter proseguire l’accumulazione dei propri profitti se non mettendo in esubero almeno metà forza-lavoro della fabbrica (5.000 operai), ridurre i salari e ridimensionare anche il comparto dell’indotto cui attualmente si rivolge e alimenta rappresentando così l’1% del Prodotto interno lordo nazionale.
Non si tratta di bruscolini, ma di un problema davvero di lotta di classe grande come un paese, grande come l’Italia che finirebbe per perdere la sua più grande industria produttrice di acciaio e che avrebbe, al contempo, sempre da risolvere il problema della bonifica del sito pugliese che è stato causa di tanti danni irreversibili alla salute per la cittadinanza, per le zone limitrofe, per la Puglia in generale.
Davanti ad una crisi di così vaste proporzioni, il governo si ripromette di mantenere aperto lo stabilimento, di conservare la produzione e di non consentire il licenziamento di nessun lavoratore. L’unica via possibile per ottenere tutto ciò è la nazionalizzazione dell’Ilva. Solo lo Stato italiano ha la concreta possibilità di mettere mano ad un settore produttivo in perdita e di farne, col tempo, un primo gradino di rinascita di una industria nazionale, pubblica, sottratta ai ricatti dei privati e gestita con la spregiudicatezza di chi intende solo speculare mediante un regime concorrenziale che serve a licenziare metà degli sfruttati di quella fabbrica e altrettanti nelle aziende dell’indotto.
La nazionalizzazione dell’Ilva prevede però un cambio di impostazione netto e repentino sul terreno della politica economica dell’esecutivo: fino ad oggi alle grandi e medie aziende sono stati concessi aiuti di Stato che sono serviti non ad una riqualificazione produttiva ma ad un ammortamento di debiti del tutto privati, causati dal padrone di turno che chiama in soccorso il pubblico quando il giocattolo gli si rompe tra le mani.
Lo sfruttamento della mano d’opera di fabbrica non è sufficiente a garantire quindi il “rischio di impresa“. Ammesso che esista davvero un rischio attribuibile all’impresa in quanto ente fisicamente identificabile con la struttura e non sia, invece, un “rischio dell’imprenditore“, del padrone dunque che, se le cose vanno per il meglio (per lui) se ne assume tutti i profitti e, invece, se vanno male finisce per rovesciare il suo disastro sulle spalle prima dei lavoratori e poi dell’intera comunità popolare.
Gli aiuti di Stato, fin da quelli concessi alla Fiat per Alfa – Romeo, sono stati trasformati da sostegno pubblico a fondo da cui attingere per rimediare all’incapacità di un capitalismo straccione italiano, orientato all’acquisizione di brevetti esteri piuttosto che allo sviluppo di nuove tecnologie, di nuove “start-up” (come vengono oggi chiamati i progetti imprenditoriali fondati sulle originalità create da menti giovani). Un capitalismo che si è servito di un regime politico e di una classe politica privi di una visione sociale del Paese, dediti ad assecondare in tutto e per tutto le esigenze del mercato: la strada spianata alle privatizzazioni origina dalla fine degli anni ’80 e si sviluppa pienamente nel suo strutturarsi come “nuova economia” del Paese alla fine del decennio successivo.
L’Ilva di Taranto non fa eccezione: a fine anni ’80 Italsider e Finsider vennero messe da parte e tornò la denominazione attuale (anche se ufficialmente la fabbrica si chiama “ArcerlorMittal Italy“) e con essa arrivò il grande smembramento della siderurgia italiana. Cornigliano venne venduta, Bagnoli venne chiuso, Piombino fu acquisito dall’imprenditore Lucchini e Taranto finì nelle mani della famiglia Riva.
Poi scoppiò la bomba ecologica e anche qui si tentò il ricatto della scelta, tutta politica, tra lavoro e ambiente, come se fosse strutturalmente impossibile – per chissà quale disposizione divina… – coniugare le esigenze della produzione con il diritto di tutti i cittadini (quindi anche dei 10.000 lavoratori!) di poter vivere al di fuori della fabbrica senza la minaccia dell’avvelenamento per la tossicità prodotta, per i tanti, troppi casi di cancro registrati, per le numerosissime malattie respiratorie registrate.
Adesso sono tante le lacrime che versano tutti coloro che in decenni hanno progressivamente debilitato i più grandi comparti dell’industria italiana, che ne hanno fatto spezzatini per i padroni nel nome della modernità, dello sviluppo economico, di magnifiche sorti e progressive che, come è del tutto evidente, ci hanno condotto solamente al disastro sociale con tutti i suoi riverberi di individuazione di un capro espiatorio da trovare per elaborare la misera condizione voluta e implementata da politiche liberiste sempre più spinte.
Davanti a tutto ciò, mentre negli stadi crescono gli episodi di razzismo, l’esposizione delle bandiere naziste, gli insulti ai giocatori come Balotelli, il leader del maggior partito italiano evita di rispondere alle critiche, non condanna questi che non sono più definibili come “episodi” ma, bensì, come vera e propria contro-cultura di massa. Non siamo innanzi a venti scalmanati neofascisti, rubricabili alla lettera “I” (fate voi poi… ignoranti, idioti, imbecilli… la “I” li può contenere tutti), ma se una certa parte politica, quella sovranista, non li esecra, non li stigmatizza, non li allontana da sé stessa e non ha meglio da dire se non la smargiassata frase: “Un operaio di Taranto vale dieci volte di più di Balotelli“, è chiaro il problema si allarga, diventa socio-politico-economico.
Il tentativo furbetto dei sovranisti di contrapporre diritti civili e lavoro è simile al giochetto di contrapporre ambiente e lavoro. Quando non si vuole perdere una parte e al contempo non si vuole abbracciare completamente l’altra parte, si creano le dicotomie, i fronti inesistenti eppure così efficaci per incattivire l’animo esasperato dei cittadini, dei più poveri, di quelli che nelle frasi di Salvini vedranno del buon senso, perché anzi “critica chi guadagna troppo e sta dalla parte di chi è sfruttato“.
Nazionalizzazione. Nazionalizzazione. Nazionalizzazione. Un’altra Ilva è possibile…
MARCO SFERINI
5 novembre 2019
foto tratta da Wikipedia