Utopia

“Utopia: dal greco ou tòpos, nessun luogo, con l’idea che possa essere qualsiasi luogo. L’Utopia scorre nelle vene della società come la conosciamo. Cominciò Platone, la Repubblica come primo...

“Utopia: dal greco ou tòpos, nessun luogo, con l’idea che possa essere qualsiasi luogo.

L’Utopia scorre nelle vene della società come la conosciamo.

Cominciò Platone, la Repubblica come primo progetto di società ideale perfettamente organizzata, Tomaso Moro inventò la parola, ci battezzò la sua isola un secolo prima di Cervantes e ci perse la testa (letteralmente, un re gliela fece tagliare), poi Campanella e la Città del Sole, i socialisti utopisti alla cui disorganizzazione rispose un certo filosofo di Treviri che si diceva socialista scientifico.

E’ la “nostra parola”, insomma.

Ma ci basta?

Chisciotte è un romanzo immortale nato in un carcere a Siviglia, dove Cervantes era dentro per debiti come del resto sono dentro per debiti quasi tutti i paesi latinoamericani.

Il chisciottismo ci è caro in quanto “dimensione eroica dell’antieroe”, come ci dice persino il dizionario della Reale Accademia spagnola: chi antepone i suoi ideali, e opera disinteressatamente per cause giuste, senza ottenerle.

Le ultime parole non convincono molto: a volte i donchisciotte vincono, magari anche solo moralmente.

Ricordiamo la lettera del Che Guevara ai genitori, nell’anno in cui non andò da nessuna parte, cioè sparì per fare la Rivoluzione in Congo: “Sento sotto i miei talloni le costole di Ronzinante, mi rimetto in cammino”…

Jose Saramago – Eduardo Galeano
Dialogo su: “Don Chisciotte oggi: utopia e politica”.
Porto Alegre Gennaio 2005”

 In un suo testo che comparirà tra pochi giorni sulle colonne della rivista “Infiniti mondi”Mario Tronti rilancia l’Utopia. Una parte di questo testo è stato anticipato dal “Manifesto” del 1 ottobre.

Due motti racchiudono il senso del suo lavoro: “Il pensiero utopico o riesce a essere antagonista pensiero critico di ogni giorno, oppure rischia di diventare una consolatoria filosofia della domenica”;

e ancora: “L’immediato passato è ciò che ha prodotto questo presente; va messo sotto critica. L’immediato futuro è tutto nelle mani di chi comanda oggi: occorre strappare glielo.”

Tronti chiede di riesaminare la reazione antinovecentesca che negli anni’80, quelli del reaganismo – tachterismo chiuse in anticipo il secolo dando ragione alla definizione di Hobsbawm sul “secolo breve”.

Il tema che si pone oggi è allora questo: da dove riprendere un’idea di lotta che ci porti sulla strada della concretizzazione dell’utopia dell’uguaglianza?

Si vede nell’oggi la messa in discussione delle forme di vita, quelle che non si scelgono ma si subiscono, quelle che non si godono ma si soffrono, quelle che quotidianamente si sperimentano non su di sé ma contro di sé.

Nel testo di Tronti emerge un principio quasi definitorio: ”Questo è un mondo che produce il massimo dell’avventurismo tecnologico e nello  stesso tempo provoca il massimo della decadenza umana.”

Oggi intorno a noi compaiono le macerie di quella che è stata, nel bene e nel male, la parte politica (ma anche culturale) più attiva nel nostro Paese e anche nell’Europa Occidentale: attiva sul piano della promozione del dibattito, della ricerca di una sintesi tra diverse opzioni e origini, della strutturazione di un’immagine pubblica, dell’espressione di contenuti rivelatisi in grado di produrre – insieme – lotte e soluzioni politiche.

Di tutto questo non vi è più traccia: la sintesi migliore per definire lo stato di cose presenti è quella dell’analisi sul disfacimento dei soggetti politici, il loro mutamento di natura, la loro ricollocazione nel limbo della sudditanza rispetto a quelle che sempre sono state le posizioni dell’avversario.

Sembrano mancare sia la ricerca culturale, sia la previsione e l’azione dell’iniziativa politica: l’impressione è, davvero, quella di muoversi nel deserto.

Quindi sarebbe necessario ricostruire un’identità. Ma come? Una ricerca in questo senso non può che rivolgersi, ricostruendo il tempo passato e perduto,  ben oltre a quei riferimenti classici sulla base dei quali, nel ‘900, abbiamo assistito ai tentativi di inveramento statuale basati su alcuni fraintendimenti marxiani.

Quello è stato un fallimento che ha coinvolto e coinvolge anche coloro che hanno sempre coerentemente assunto una visione critica.

Prendendo atto di questo primo punto ci sarebbe da ricostruire un ‘utopia: nella convinzione che senza l’offerta di un’utopia , pur in questi tempi di dominio tecnologico, difficilmente le generazioni possono affacciarsi sulla scena del cambiamento di quella potrebbe apparire una direzione obbligata della storia: dominanti e dominati, servi e padroni, forti e deboli.

Un’utopia complessiva, magari sul modello di quella disegnata da San Tomaso Moro: una comunità ideale, perfetta ed egualitaria, evidenziando la duplicità di senso tra luogo inesistente e luogo ottimo.

Un’utopia che si contrapponga a una realtà storica giudicata irrazionale e degradata: un progetto di costituzione sociale meditato, coerente, nella propria logica interna, con caratteri di trasparenza e di autosufficienza.

Come potrebbe però l’idea di questa utopia mobilitare le grandi masse, raccogliere attorno alle sue espressioni le lotte sociali, suscitare un moto di concreto cambiamento?

E’ proprio questo l’interrogativo più assillante, quello al riguardo del quale lo smarrimento culturale della sinistra incide di più.

Eppure una chiave di interpretazione ci sarebbe.

Se noi esaminiamo i dati dell’economia di questo principio di secolo e li incrociamo, partendo proprio da qui dall’Europa Occidentale, con quelli della condizione materiale di vita delle classi subalterne (indicatori molto diversi, sotto questo aspetto, da quelli compongono la costruzione delle stime dei diversi PIL nazionali) ci accorgiamo di un elemento fondamentale: la costruzione dei patrimoni, i meccanismi di incremento del capitale, il livello delle diseguaglianze tendono tutti a far ritornare attuale la condizione della fase in cui, con lo sviluppo del capitalismo, si avviarono i grandi processi di organizzazione e di lotta del movimento operaio.

Sicuramente non siamo più dentro ad una fase di accumulazione come quella verificatasi durante la rivoluzione industriale, ma le cifre ci dicono che i livelli di sfruttamento (e da esso la crescita della rendita dei patrimoni) è molto simile a quella fase anche sotto l’aspetto della vastità dei soggetti coinvolti, con l’aggiunta del tema ambientale sconosciuto nell’800 (il secolo delle “magnifiche sorti e progressive).

Intendiamoci bene: le differenze sono enormi, soprattutto al riguardo dell’estensione materiale dei diversi settori dell’economia tra primario, secondario e terziario, ma la sostanza (e gli effetti concreti) della logica dello sfruttamento stanno tornando a essere quelli di quella fase, cancellando via via quanto si era spostato in avanti dal punto di vista economico e sociale nel corso del secolo successivo, quello che definiamo dei grandi conflitti e dei grandi totalitarismi.

Esprimiamoci in estrema sintesi: si tratta, prima di tutto, di far capire in quale condizione materiale i ceti subalterni si trovano offrendo l’idea di una rinnovata utopia e di strumenti di lotta non solo difensivi ma anche prefiguranti uno sbocco sociale e politico diverso e alternativo.

Si fa presto a seguire le mode e adesso l’effetto Greta sembra prevalere nelle disperse membra di quella che fu la sinistra, mentre i Verdi spingono per dire che “l’ambiente non è né di destra, né di sinistra”. Val pena ricordare che assumere le contraddizioni come “single issue” è sempre corporativo e che non è possibile rinunciare alla nostra visione sistemica delle contraddizioni che muovono le forze motrici della storia.

FRANCO ASTENGO

2 ottobre 2019

foto tratta da Pixabay

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