La Corte costituzionale ha deciso sul suicidio assistito. Dal comunicato si trae che siamo di fronte a una pronuncia di illegittimità che riconosce la non punibilità della condotta di chi assiste, ma ponendo molti limiti e condizioni.
In sostanza, la Corte prende le mosse dalla ordinanza dell’anno scorso con cui aveva dato tempo al parlamento per legiferare, la 207/2018. Le motivazioni ci diranno specificamente con quali ulteriori sviluppi.
È una decisione solo in parte soddisfacente.
La Corte, per giungere alla dichiarazione di illegittimità, assume che la fattispecie dell’assistenza al suicidio sia diversa dall’istigazione. Da questa premessa si poteva agevolmente concludere per la illegittimità dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui punisce l’assistenza. Con le tante cautele assunte, la Corte sembra aver ritenuto che una siffatta pronuncia sarebbe stata un avallo implicito a un «diritto di morire», che invece ha inteso escludere.
Dal comunicato stampa emesso ieri sera dalla Corte, apprendiamo che nella sentenza saranno richiamate le condizioni con cui aveva già circoscritto la non punibilità dell’assistenza al suicidio. Occorre cioè che la persona sia
«(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». A queste condizioni la Corte ne aggiunge adesso delle altre, e cioè che una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale verifichi sia l’esistenza delle «condizioni richieste» sia le «modalità di esecuzione» del suicidio assistito. E sempre «sentito il parere del comitato etico territorialmente competente».
Il punto è che nell’ordinamento il diritto di decidere di porre termine alla propria vita esiste, come ho già argomentato su queste pagine. Ne è titolare chi si trova nella pienezza delle proprie facoltà e in salute, come anche chi è in condizioni di malattia, vulnerabilità e debolezza, come è ad esempio chiaro con riferimento al rifiuto di trattamenti salvavita. Se qualcuno rifiuta tali trattamenti, di certo esercita un suo diritto, non deve chiedere il parere al comitato etico territorialmente competente, e può farlo anche al di fuori delle strutture del servizio sanitario nazionale. Magari morirà lentamente e con sofferenza, ma nessuno potrà impedirglielo.
Se volesse, coeteris paribus, farsi accompagnare nell’ultimo passo, e morire con dignità e senza sofferenza, dovrà farlo nel modo prescritto? Certo capiremo meglio quando leggeremo le motivazioni.
Ad esempio, sembra giusto che il parere del comitato etico sia obbligatorio ma non vincolante. Diversamente, sarebbe il malato ad essere espropriato della sua scelta. Ma se è solo obbligatorio, alla fine a che serve?
Anche per i casi pregressi bisognerà chiarire. Per chi è andato a morire in Svizzera le condizioni poste dalla Corte non sono ovviamente più realizzabili. Questo non dovrebbe incidere sulla non punibilità di chi ha svolto assistenza, e la sentenza della Corte dovrà definire il punto con chiarezza. Sappiano però gli interessati che da ora in poi in Svizzera si dovrà – volendo – andare soli. L’aspirante suicida non è punibile. Chiunque altro sì.
Certo il tema tocca un tema particolarmente sensibile. Ma tale è più per la politica che per la coscienza civile degli italiani, da sempre favorevoli in larga maggioranza alla ipotesi che sia consentito aiutare chi sceglie di compiere l’ultimo fatale passo.
Analoghi segnali vengono da quel che concretamente accade negli ospedali e fuori. La superfetazione burocratica imposta dalla Corte rischia di essere una rappresentazione lontana dalla realtà del vivere.
MASSIMO VILLONE
foto tratta da Pixabay