Da bere acqua di mare, pane duro per cibo. Rinchiusi in celle anguste tra immondizia e insetti per mesi. Nel campo, torture di ogni tipo: scariche elettriche, bastonate, colpi con il calcio dei fucili e con tubi di gomma, frustate. Le donne violentate ripetutamente. Minacce di morte continue per i migranti prigionieri e per i familiari costretti a pagare il riscatto e a guardare le foto dei propri cari mentre vengono torturati. Senza soldi niente partenza con i barconi. Molti non ce la fanno a resistere. Come due fratelli della Guinea, deceduti per le gravi ferite provocate dai torturatori, i loro corpi abbandonati chissà dove.
Siamo a Zawyia, città della Libia. A raccontare le barbarie nella prigione degli orrori sono stati alcuni migranti ascoltati dalla squadra mobile di Agrigento, dopo essere stati soccorsi in mare dalla nave Alex della ong Mediterranea. Le loro testimonianze sono finite nel rapporto che gli investigatori hanno consegnato alla Procura della città dei templi, che ha poi girato il fascicolo per competenza alla Dda di Palermo. Per la prima volta gli inquirenti contestano il reato di tortura, introdotto nel luglio del 2017, oltre all’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, la tratta, l’estorsione, la violenza sessuale e gli omicidi.
Tre le persone fermate, riconosciute dai testimoni come i carnefici di Zawyia: Mohamed Condè detto Suarez, 22 anni della Guinea; Hameda Ahmed di 26 anni e Mahmoud Ashuia, 24 anni, entrambi egiziani.
I tre si trovavano nell’hotspot di Messina quando sono stati presi in carico dagli investigatori. Molti dei migranti che li hanno riconosciuti, attraverso le foto-segnaletiche, sono stati sentiti nei centri d’accoglienza di Castelvetrano (Tp) e Marsala (Tp) o in alcuni comuni della Calabria, dove nel frattempo erano stati trasferiti dopo l’approdo a Lampedusa. Hanno raccontato che il capo dell’organizzazione si chiama Ossama, è lui a gestire il campo di Zawyia. Secondo gli inquirenti i profughi, con inganno o violenza o dopo essere stati venduti da una banda all’altra o da parte della stessa polizia libica, vengono rinchiusi nell’ex base militare capace di contenere migliaia di persone. Per chiedere il riscatto alle famiglie dei prigionieri la banda usa un telefono di servizio», tramite il quale i migranti sono costretti a contattare i propri congiunti, alla presenza dei carcerieri, e convincerli a pagare il riscatto. Chi non paga viene ucciso o venduto ad altri trafficanti di uomini; chi paga viene rimesso in libertà, ma con il rischio di essere nuovamente catturato dalla stessa banda e di dover versare altro denaro ai carcerieri di Zawyia.
Strazianti le testimonianze. «Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiate all’interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate da due libici e tre nigeriani che gestivano la struttura. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni», racconta una delle vittime della prigione di Zawyia. «Le condizioni di vita sono inaudite – dice il profugo – Durante la mia prigionia ho visto che gli organizzatori hanno ucciso a colpi di pistola due migranti che avevano tentato di scappare». E ancora: «Eravamo divisi in gruppi per nazionalità e per sesso – riferisce un’altra vittima – Le donne erano messe tutte insieme, mentre noi uomini eravamo divisi per la nazione di appartenenza. Io ero con i camerunensi. Ci davano da mangiare solo una volta al giorno. Tutti i giorni invece venivamo, a turno, picchiati brutalmente e torturati con la corrente dai nostri carcerieri. Erano spietati, il capo si chiama Ossama ed è un libico in abiti civili, con sé aveva delle pistole». L’uomo ha perso la sorella in quel campo, dove sono rinchiusi i suoi nipoti. ««Ho visto morire tanta gente – aggiunge – Con me all’interno di quel carcere c’era mia sorella Nadege, che purtroppo è morta lì per una malattia non curata. Mia sorella aveva con sé le due figlie di 7 e 10 anni, sono ancora detenute in Libia».
Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ribadisce l’esigenza di un intervento della comunità internazionale. «L’indagine ha dato la conferma delle inumane condizioni di vita all’interno dei capannoni di detenzione libici – commenta – e la necessità di agire, anche a livello internazionale, per la tutela dei più elementari diritti umani e per la repressione di quei reati che, ogni giorno di più, si configurano come crimini contro l’umanità».
ALFREDO MARSALA