Se fosse stata invece la battaglia di Valmy, di qualche decennio precedente e sempre su suolo di Francia, i grillini si sarebbero dovuti vestire da prussiani e ritirarsi velocemente dietro le terga del cavallo del duca di Brunswick.
Se fosse stata la battaglia di Waterloo, i grillini avrebbero invece dovuto impersonare Napoleone e la sua guardia imperiale all’ultimo assalto delle truppe del duca di Wellington e del maresciallo Blucher, ormai sul far della sera, di una notte incipiente, di un declino ormai inevitabile e probabilmente questa volta veramente irreversibile.
Ma, sfortunatamente per loro, né Valmy e nemmeno Waterloo possono eguagliare una sconfitta di così grande portata come quella accumulata nel giro di pochi giorni, eppure proveniente già dal voto amministrativo del maggio scorso: le tante difficoltà a giustificare le altrettante deviazioni dall’originario “contratto di governo” imposte dalla prepotenza leghista, al sole del risultato elettorale e dell’avanzamento costante nei sondaggi, e per il ultimo il “sì” al TAV pronunciato da Giuseppe Conte, hanno segnato un punto di non ritorno quanto meno della prima fase governativa del movimento fondato da un Beppe Grillo che dichiara di non riconoscersi più in questo “movimento“.
Le ragioni originarie per cui è nato, lo spazio a sinistra che aveva inizialmente occupato, sono tutti elementi che si sono corrosi nel tempo per via di una ricerca da parte degli strati sociali più deboli e sfruttati di una risposta meno rivoluzionaria (ammesso che quella del M5S sia mai stata una “rivoluzione” nel senso politico e sociale della parola) ma più energica, ducesca, che rasenta un autoritarismo magari non direttamente voluto ma che è conseguenza della domanda non di uguaglianza che rafforzerebbe le ragioni della vera sinistra di alternativa, bensì della domanda di ordine, stabilità, sicurezza mettendo al primo posto indubbiamente i diritti (e molto poco il controbilanciamento civico dei doveri) ma consegnandoli alla parola d’ordine salviniana: “Prima gli italiani!“.
L’onestà è nuovamente passata di moda come elemento fondante della “rivoluzione” che avevano cercato i pentastellati: si è tornati all’antico costume italiano del “meglio un uovo oggi che la gallina domani“. Frutto della disperazione economica di milioni di persone che sono senza un lavoro, ipersfruttate con contratti a tempo determinatissimo, che salgono in sella ad una bicicletta per pochi euro al giorno e che crepano pure se una macchina non dà loro la precedenza o se la ruota gli si infila in una rotaia del tram.
Prima alla Camera dei Deputati e poi al Senato della Repubblica si è consumata ieri un insieme di scene veramente surreali e per questo, forse, molto legate ad un realismo cui dovremmo prestare attenzione: il presidente Conte ha in un certo modo riconosciuto la sua fiducia a Salvini pur ammettendo che nell’affare Metropol Savoini era presente ad alcune delegazioni ufficialmente e non come classico “imbucato” dell’ultimo minuto.
Poi ha ribadito che il TAV si farà e che non avrebbe senso perdere i finanziamenti europei anche se non si è addivenuti ad un accordo transalpino e Italia e Francia rimangono ancora distanti in merito.
Il Parlamento sembra aver riacquistato la sua centralità: discute, si anima, si esagitano deputati e senatori scambiandosi vicendevoli accuse. Eppure c’è qualcosa che non va, qualcosa che non funziona del tutto.
Perché Salvini è assente? Perché lui e Renzi scelgono come tribuna per il popolo non la loro voce nelle aule delle Camere ma le dirette su Facebook? A Renzi è stato detto dal PD che era meglio se non fosse intervenuto. Salvini evita l’Alta Camera, sfugge al confronto e, infatti, il comizio a senso unico che fa dalla sua pagina ufficiale su “faccialibro” scivola oltre la dialettica, la sorpassa imponendo, a chi ha piacere di ascoltare una sceneggiatura politica ormai ripetuta ad ogni diretta e ad ogni dichiarazione pubblica, la solita manfrina delle sfiducie contro di lui trasformate in “medaglie al merito“, dei “rosiconi”, dei “baci” che compartisce con tanti sonori “smack” e gestualità al seguito.rivoluzione
Per attaccare uno sfibrato PD, logorato dalle polemiche tra renziani e antirenziani, i leghisti usano il comodo argomento dell'”oro di Mosca”, del finanziamento di un partito ad un altro partito: un po’ diverso dalla presunta creazione di fondi neri in una trattativa per acquistare materie prime estere al fine di arricchirsi personalmente…
Tuttavia l’argomento suscita il plauso delle menti presenti e al tempo stesso assenti di chi batte le mani, sicuri che anche questa volta gli ostacoli saranno scavalcati perché, nonostante la gravità dell’affare “Metropol“, si cresce nei sondaggi e la gente si sbraccia nelle piazze del Paese per salutare il capitano e fare selfie a tutto spiano.
In tutto ciò, la guardia imperiale napoleonica a Waterloo e la fanteria prussiana di Walmy voltano le spalle, si dirigono al quartier generale in ordine sparso: c’è chi si appella al Parlamento per la discussione sul TAV, chi preferirebbe fare un referendum online per tornare alle origini del Movimento e chi ne decreta la morte (forse prematura).
Certo è che mentre la Lega e Salvini oltre a galleggiare sulle questioni più scottanti, resistono e avanzano anche sul piano dei rapporti con il presidente del Consiglio (i leghisti non abbandonano l’Aula del Senato della Repubblica quando Conte inizia a parlare… loro restano, a differenza dei pentastellati), forti anche del sicuro risultato che avrà una eventuale votazione sul TAV in Parlamento (ad essere contrari al momento sono soltanto M5S e Sinistra italiana), i grillini si trovano davanti ad una quasi crisi di governo, ad una Valle di Susa infuriata nei loro confronti, ad un ulteriore passaggio sotto le forche caudine di Alberto da Giussano.
Praticamente un fallimento completo e complessivo che li pone nella condizione di rimanere pure prigionieri di un governo che ormai, del tutto evidentemente, non è più anche il loro governo, ma solo il luogo politico dove rimangono abbarbicati in preda al terrore delle urne.
Scendere sotto una soglia ipotetica del 15% li porrebbe nell’irrilevanza in seno ad una formazione di una nuova maggioranza: a quel punto si formerebbe uno scenario nuovamente bipolarista con PD, Bonino, Verdi e Socialisti di Nencini da un lato, Salvini, Meloni e forse la Forza Italia rinnovata di Toti dall’altro.
La caduta del Movimento 5 Stelle nelle stalle è figlia di una contraddizione multipla, di una pretesa di rappresentare sincretisticamente un interclassismo di interessi impossibile da reggere all’impatto di governo che esige sempre un privilegio di interessi di classe, per l’appunto: la scelta di quali interessi tentare di far prevalere è una “non-scelta“, visto che nessun governo potrà mai, in questo contesto economico capitalistico, mettere in primo piano i bisogni delle classi “non-dominanti“.
Tutt’al più qualcuno poteva illudersi che i Cinquestelle mettessero fine alla vasta rete di corruttele con il loro apparente giacobinismo privo però della sua originaria ispirazione sociale e persino antirazziale (prima ancora della Convenzione, fu l’Assemblea nazionale francese, su spinta di Robespierre, a proclamare la liberazione di tutti gli schiavi e di tutti i neri nelle colonie francesi, allargando così le maglie dell’egualitarismo espresso dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino“).
Ma il M5S, forza di destra, forza che ha dimostrato di essere tale nel coniugarsi con la Lega di Salvini e nell’appoggiare ogni politica respingente e crudelista nei confronti del fenomeno migratorio, stigmatizzando l’operato delle Ong definite come “taxi del mare“; forza che ha privilegiato politiche liberiste a politiche sociali, nonostante l’elemosina di Stato rappresentata da un pasticciato “reddito di cittadinanza” (una riforma che sarebbe stata utile se inserite in un contesto di altri interventi volti a colpire le grandi ricchezze sul piano fiscale: primo fra tutti la tassa patrimoniale, fortemente progressiva così come esige la Costituzione), oggi è davanti non ad un bivio, ma di più: a scelte così multiple da essere disorientanti.
Ed in questa indecisione sul da farsi (andare al voto, rimanere al governo, accettare nuovi compromessi, irrigidirsi e mostrare l’anima delle “origini“, ecc.) si consuma lentamente il Movimento a cui voltano le spalle milioni di elettori e il suo stesso comico fondatore.
La triste estate dei Cinquestelle, parabola discendente di un decennio folgorante, è appena cominciata…
MARCO SFERINI
25 luglio 2019
foto: screenshot