Sea Watch 3, riepiloghiamo: lo “spiegone” di Mediterranea

Ne abbiamo lette di tutti i colori. Malta, Tunisia, Libia, Lampedusa, ecco come sono andate le cose, e perché le scelte di Carola e della Sea-Watch3 sono state inevitabilmente...

Ne abbiamo lette di tutti i colori. Malta, Tunisia, Libia, Lampedusa, ecco come sono andate le cose, e perché le scelte di Carola e della Sea-Watch3 sono state inevitabilmente giuste.

Il 12 giugno la Sea-Watch3 salva 53 persone in zona SAR (Search And Rescue) libica, un tratto di mare che la Libia si è auto-attribuito, perché così funziona con le zone SAR, con un atto che potrebbe e dovrebbe essere contestato solo da un altro Stato che sollevasse la questione presso il Tribunale internazionale del mare di Amburgo: come può un paese che non è un porto sicuro coordinare la Ricerca e il Soccorso di naufraghi in un’area enorme di mare?
Inutile dire che nessuno Stato ha in questo momento interesse a contestare la cosa. E così un paese in guerra, governato da milizie armate, si ritrova ad avere una cosiddetta Guardia Costiera finanziata coi soldi dell’Europa e dell’Italia, che cattura chi scappa da torture e bombe e li riporta indietro.

Semplicemente un crimine che viola una decina di convenzioni internazionali.

Torniamo alla Sea-Watch 3. Dopo il salvataggio del 12 giugno, eseguito obbedendo a un dovere non solo etico, ma giuridico, la nave chiede un porto sicuro, come il diritto internazionale prevede. L’unica risposta ricevuta è: portate i naufraghi a Tripoli, sotto le bombe, per l’appunto, e nei centri di tortura. Ordine impossibile da eseguire.
A questo punto, alla capitana Carola Rackete, in assenza di altre indicazioni, non resta che seguire quanto previsto dalla Legge, e portare le persone di cui ha la responsabilità nel porto sicuro più vicino dal punto del soccorso, ovvero Lampedusa (Malta era più lontana).

Perché non la Tunisia? Perché la Tunisia non è dotata di centri che garantiscano la prima accoglienza, né ha mai implementato un sistema che garantisca il diritto di asilo, oltre al fatto che non ha mai concesso un porto a una nave della società civile.

Quindi la Sea-Watch3 si dirige verso Lampedusa, nel pieno rispetto della legge. Alla nave, con ancora 53 persone a bordo, viene però intimato di non fare ingresso nelle acque territoriali italiane perché, in accordo col Decreto-Legge appena entrato in vigore, il suo passaggio non sarebbe considerato “non inoffensivo”. Peccato che questo decreto sia incompatibile, come presto sarà dimostrato nelle sedi deputate, coi principi del diritto internazionale che abbiamo citato prima.

Alla Sea-Watch3 e al suo equipaggio non resta che aspettare. Nessun altro porto europeo concede l’approdo, la negoziazione politica con gli atri Stati Ue stavolta non sembra neppure cercata, e comunque in Italia non esiste alcuna emergenza immigrazione per cui gli Stati europei, certamente colpevoli anch’essi per le loro politiche, dovrebbero affannarsi a dare disponibilità.

La società civile e le amministrazioni locali però la disponibilità la danno comunque: molti sindaci di alcune città tedesche sono disposti a offrire asilo ai naufraghi, mentre in Italia lo stesso vale per la Diocesi di Torino.
Nel frattempo, paradosso nel paradosso, centinaia di persone dalla Libia arrivano in autonomia a Lampedusa, per fortuna sane e salve, con barchini di fortuna o scortati dalla Guardia di Finanza.

Passano i giorni, 10 persone, poi 11, vengono accompagnate a terra per problemi di salute o perché nuclei familiari con neonati, ma la Sea-Watch3 non può attraccare. Continua lo spettacolo della cattiveria, della violenza del potere contro il diritto e i diritti, disposto a sacrificare 42 persone sull’altare del consenso politico.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, novella Ponzio Pilato, dopo essere stata consultata sostiene che la giurisdizione italiana è dubbia, ma allo stesso tempo obbliga lo Stato italiano a prestare assistenza alle persone a bordo.

Dopo 14 giorni a disegnare ghirigori sulla mappa delle acque al limitare di quelle territoriali italiane, di fronte a Lampedusa, con l’equipaggio stremato, i naufraghi devastati fisicamente e psicologicamente, Carola Rackete ha deciso di entrare nelle acque territoriali italiane.
Non certo per provocazione, come ha scritto, ma per senso di responsabilità.

Perché a un certo punto bisogna avere il coraggio di dire basta. Perché ci sono “capitani” e Capitane.

Persone che sono disposte a sacrificare il proprio benessere e la propria libertà per la vita di altre.

Adesso fatele scendere.

MEDITERRANEA SAVING HUMANS

testo e foto tratti dalla pagina Facebook di Mediterranea

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Migranti

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