Armatevi e partite. L’ultima copertina dell’Economist rappresenta un Trump a forma di bomba, ciuffo compreso, con le scritte «tariffe doganali», «lista nera tecnologica», «isolamento finanziario», «sanzioni». La bomba Trump, un ordigno sanzionatorio a frammentazione, un giorno colpisce la Cina e Huawei, un altro il Messico e il Venezuela, un altro ancora l’Iran.
E mentre incita gli inglesi a non pagare la Brexit ma a chiedere un risarcimento all’Unione, mobilita navi e aerei nel Golfo.
La bomba Trump scalpita per colpire, progetta un cambio di regime in Iran e punta a far fuori gli alleati della repubblica islamica, da Assad in Siria agli Hezbollah in Libano, agli Houthi in Yemen, i nemici dei sauditi. E tanto per gradire la Raytheon americana, con una decisione di emergenza presa dall’amministrazione Trump, si prepara a consegnare a Riyadh le componenti per assemblare nel regno le bombe di precisione teleguidate. Non c’è nessuna metafora nella politica trumpiana: prepara la nuova stagione del Trono di Spade.
Le minacce militari e quelle commerciali vanno di pari passo. Non è vero, come trasmette la vulgata mediatica, che Trump è un gran negoziatore. Il presidente americano e la sua cerchia, costituita in buona parte da neoconservatori della vecchia guardia, intende mettere spalle al muro partner e nemici usando tutti gli strumenti a disposizione. La Casa bianca vuole concessioni immediate, non tavoli negoziali.
Il caso dell’Iran è emblematico. Il segretario di Stato Mike Pompeo si dice disposto a trattare con Teheran «se diventa un Paese normale». Sono affermazioni che non significano niente di concreto e nessuno al posto di Teheran si metterebbe a negoziare con un avversario che ogni giorno impone agli iraniani qualche sanzione o lista nera.
Questo non significa negoziare, questo vuol dire chiedere una resa incondizionata, tanto più che l’apparato bellico americano si è mobilitato nel Golfo come non accadeva dal 2003 quando fu decisa l’invasione dell’Iraq, Paese – dove è bene ricordare – sono di stanza quasi seimila soldati americani, oltre a quelli nel Qatar, la Sesta flotta in Bahrain e il contingente in Siria. Gli iracheni sono ormai stritolati in una morsa, tra gli Stati uniti e l’Iran, la potenza straniera finora più decisiva, quella che con le milizie sciite ha fatto da barriera al «califfato» di Al Baghdadi.
Quali segnali di distensione arrivano da Washington per incoraggiare una soluzione diplomatica? Nessuno. Anzi. Trump sta puntando sulla sua «Nato araba», le monarchie del Golfo più Israele, per fare la quarta guerra nel Golfo.
La Nato occidentale, nonostante il profluvio di retorica che ha accompagnato le celebrazioni per il 75° anniversario dello sbarco in Normandia, viene considerata inaffidabile nelle sue componenti maggiori, Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania, Paesi che in questo momento non vorrebbero fare la guerra all’Iran, anche se non fanno nulla per aggirare le sanzioni imposte dagli americani e a fine giugno – a causa di questo atteggiamento passivo e inconcludente – costringeranno Teheran a non attuare parti dell’accordo sul nucleare del 2015.
Proprio per questo non possono sperare, alla lunga, di restare spettatori neutrali. Da quel momento in poi è prevedibile che anche gli europei si troveranno sotto pressione.
Tanto per cominciare con le basi dell’Alleanza Atlantica in Europa e l’Italia è pienamente coinvolta perché in caso di conflitto nel Golfo verranno usate anche quelle in Sicilia. E poi gli americani da tempo stanno lavorando per portare dalla loro parte i Paesi dell’Europa orientale e di Visegrad che già hanno fornito truppe per le missioni all’estero.
Questo quadro non è poi tanto differente dal passato. Nel 2003 con la colossale bufala delle armi di distruzione di massa dell’Iraq fu attuato l’attacco a Saddam Hussein cui aderirono in Europa la Gran Bretagna e l’Italia ma non la Francia di Chirac. Oggi sembra che gli europei non abbiano intenzione di farsi trascinare in un conflitto ma è solo apparenza. In realtà, di fronte alla quotidiana rappresentazione di Teheran come una «minaccia alla pace», alla fine potrebbero cedere ancora una volta agli Usa e dei loro alleati mediorientali che sono anche i loro maggiori acquirenti di armi.
Per saggiare il terreno, gli Stati uniti stanno esercitando pressioni sull’Italia per mandare truppe in Siria: ad addestrare sul campo non si sa chi, forse i curdi. Insomma chiedono al ventre molle della Nato, cioè a noi, di andare su un terreno minato dove ci sono truppe siriane, turche, russe, americane, curde e anche un buon numero di jihadisti.
Tutto questo mentre Trump si prepara a legittimare il generale Khalifa Haftar che in teoria sarebbe un nostro nemico perché tiene sono assedio Tripoli.
Altro che «cabina di regia»: qui vogliono che facciamo ancora una volta i camerieri degli americani. Ma stiamo certi che i nostri tetragoni sovranisti sapranno difendere gli interessi italiani da ogni minaccia.
ALBERTO NEGRI
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