La caducità di ogni cosa viene a contrasto con i desiderata super umani di vivere, seppur in un lasso di tempo scandito dalle date di nascita e morte, in un mondo imperituro, senza fine.
L’incendio della cattedrale di Notre Dame de Paris è l’epifenomeno che ci trasciniamo appresso, che diventa per un istante, mentre le fiamme alte divampano nel cielo e distruggono la guglia che rovina sulla grande chiesa cattolica della capitale francese, fenomeno, manifestazione, epifania plasticissima di un inconscio che ci tormenta.
E’ l’incosapevole (ma molto presente quotidianamente) paura della morte, delle finitudine che è una forma di violenza che esercitiamo su noi stessi.
Vorremmo che ogni cosa, ogni monumento, ogni presente fosse un presente costante e che non subisse mai trasformazioni. Per questo se crolla un edificio qualsiasi, magari costruito negli anni ’70 del secolo scorso, l’impatto cronachistico è semplicemente quello di registrare la tragedia se vi sono dei morti o, al massimo, di indagare sulle cause del disastro; così pure se si apre una voragine nel terreno, vi precipitano macchine e moto, anche se la voragine avesse un diametro di chilometri, sarebbe comunque sempre un evento probabile e quindi possibile: terribile, ma accettabile dal nostro essere più recondito.
Ma quando un simbolo storico, per l’appunto un “monumento” (che ha la sua origine latina nel verbo “monère”, quindi “ricordare”) crolla sotto il peso degli eventi, di un terremoto, di un incendio, di una bomba, di una furia iconoclasta o di chissà cosa d’altro, allora quel ricordo che immaginavamo perenne, immutabile e intramontabile assume le sembianze di noi stessi, della coscienza nostra e ci ricorda che nemmeno le pietre più dure e le strutture lignee meglio conservate sono eterne e che tanto meno lo siamo noi.
Ci piomba addosso quindi una angoscia che per metà è frustrazione per la caducità di tutte le cose materiali presenti nell’universo e per l’altra metà è molto più umanamente riscontrabile nel particolare di ogni giornata su quella “terra” molto lontana dai massimi sistemi cosmologici, dalle tempistiche dell’ignoto, dello spazio.
La proiezione umana dall’universo ripiomba nella mediocrità dell’essere vivente nel momento presente e quindi c’è spazio per il dolore sincero per la perdita di una “bellezza”, di una forma artistica che consola l’animo umano nel percepirla, nel vederla ogni giorno passando per l’Ile de la Citè.
La bellezza è espressione di un assemblaggio secolare di culture sconosciute ai più che spesso ignorano la storia della propria città, del proprio paese e che danno per scontato che Notre Dame c’è sempre stata e sempre ci sarà.
Della Roma repubblicana e imperiale dei Cesari è rimasto ben poco rispetto al mondo complesso costruito in tre continenti molto differenti tra loro: il Colosseo, i Fori imperiali, strade e acquedotti, Pompei, qualche tempio sparso un po’ ovunque in Italia, nel resto d’Europa, nel vicino Medio Oriente (fatta salva la criminale distruzione operata dagli assassini dell’ISIS) e nell’Africa settentrionale.
Eppure quel poco che rimane ci è indispensabile per comprendere il passato, per ricostruire ciò che è diventato invisibile proprio “nel” tempo, attraverso un annichilimento irrefrenabile, più potente delle forze degli elementi naturali perché legato ad una relatività che è legge universale, che contempla tempi così dilatati e lunghi da essere impropri per la mente umana, ridicola nel suo essere fantasticamente complicata e potente da generare la “coscienza”, la consapevolezza di noi stessi e, pertanto, la capacità di riflettere e oltrepassare la mera istintualità propria di tutte le altre creature animali viventi.
Forse questa particolarità, estremo attuale punto massimo di evoluzione della materia, è sfuggito al “creatore”, oppure è un semplicissimo stadio di trasformazione delle combinazioni tra atomi di differenti elementi che hanno nella casualità degli eventi trovato un posto nel disordine universale, nel profondo e terribile buio dove tutto è violenza, scontro di pezzi di materia con altri pezzi, collisioni e conflitti, mutazioni altrettanto titaniche e apocalittiche da essere fuori dalla portata dei confini mentali umani.
Ogni civiltà è destinata ad essere sostituita lentamente, con un ricambio quasi impercettibile, da una civiltà nuova che non è mai una forma ben delineata che scalpita per prendere il posto della forma che l’ha preceduta: insieme alle forme, quindi alle geometrie dei nostri centri urbani e suburbani, mutano usi, costumi, lingue e ciò che noi diamo per scontato oggi, l’Italia, la lingua del Padre Dante, la forma stessa della Penisola è certo che subirà trasformazioni tali da far dire un giorno a chi vivrà ancora qui dove io sto scrivendo: “Un tempo qui vivevano popoli chiamati “italiani”, “francesi”, “tedeschi”…”.
Tutto questo lo si ritrova ben descritto dal genio visionario di Wells ne “La macchina del tempo”: intrappolato dopo la catastrofe nucleare novecentesca, il viaggiatore si ritrova per migliaia di anni all’interno di una grotta. Poi anche la montagna cede all’usura inesorabile degli elementi attraverso la dimensione temporale e lui si ritrova nuovamente a cielo aperto in un mondo completamente mutato, privo di punti di contatto con la Londra del ‘900.
Notre Dame de Paris è bruciata: le cause sono da verificare, le inchieste saranno lunghissime e la ricostruzione costerà cifre da capogiro e impiegherà decenni per poter essere ultimata.
Nel frattempo, mentre la grande chiesa che ha ispirato il romanzo a Victor Hugo e, da questo, numerosi esperimenti cinematografici dal bianco e nero alla divertente versione fiabesca di Disney, sarà stata ricostruita, molti quartieri di Parigi avranno subito ben più vasti mutamenti di quello operato dalle fiamme il 15 marzo 2019.
Ma il nostro inconscio umano ci dirà che 800 anni di arte, di storia, di cultura e di bellezza sono preservati e con essi torneremo ad illuderci, per trovare un poco di felicità nel caotico regime capitalistico che ci avvelena le vite, di essere in un certo qual modo ultrasecolari anche noi.
Ma come la cattedrale, prima o poi, il fuoco divorerà anche noi e torneremo a far parte del mistero dell’Universo, vero grande fascinoso enigma cui rivolgersi quando la miseria delle nostre esistenze ci sembra insopportabile. Un dio laico cui volgere lo sguardo sapendo che i problemi sociali, legati alla piccolezza dei nostri bisogni, rimangono a prescindere dall’esistenza o meno di qualunque principio creatore e mantenitore dell’esistente.
Panta rei… del resto…
MARCO SFERINI
16 aprile 2019
foto tratta da Pixabay