Sulle colonne di Repubblica ci si interroga in questo modo (articolo di Roberto Cotroneo): “Mai come ora scrittori e studiosi sono delle celebrità, tra social network e festival di vario tipo. Eppure, sul piano della riflessione forte sull’oggi, il loro silenzio è assordante. E questo è uno degli effetti della crisi della politica”.
Verrebbe voglia di rispondere tirando fuori l’argomento che la crisi della politica deriva dal deficit di organizzazione inteso quale diretta conseguenza della trasformazione dei partiti.
Quindi sarebbe naturale, come del resto fa in conclusione l’autore dell’articolo , di tirar fuori il discorso gramsciano sull’intellettuale organico: “l’idea di un’intellettualità diffusa, un intellettuale di tipo nuovo non separato per mestiere e appartenenza di classe dal resto della società, ma proveniente da questa e legato alla classe lavoratrice dal compito di costruire attivamente la sua emancipazione. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III, pp. 1550-1551”.
Le cose però stanno in maniera diversa e le ragioni dello stato di cose denunciato opportunamente da Cotroneo affondano nella profondità quasi imperscrutabile di una drammatica crisi di civiltà.
E’ andata perduta un’idea di progresso, di “magnifiche sorti e progressive” .
Quelle “magnifiche sorti e progressive” sulle quali poggiava l’idea di un naturale sviluppo storico dei rapporti umani.
L’innalzamento dei nuovi muri ha fatto sfuggire al senso comune una idea di progresso che non può essere scambiata con l’innovazione tecnologica, anche la più scientificamente avanzata e sofisticata.
Non basta e non basterà l’intelligenza artificiale.
La risposta alla crisi dell’idea di progresso è stata dunque quella arretrata del rilancio del concetto di territorialità, di legame dell’uomo alla terra, di definizione dell’avanzata tecnico – industriale come causa livellatrice delle differenze culturali e storiche tra i popoli.
I punti cioè che ben possiamo definire come di arretramento “storico”.
Un “arretramento storico” al livello di sviluppo del pensiero umano che oggi sembra prevalente nelle espressioni culturali e politiche.
Come si recupera, allora, quell’idea di progresso che ci ha accompagnato per almeno due secoli, nell’edificazione della modernità nel ruolo dello Stato e delle relazioni politiche e civili e sociali?
Certamente non rilanciando tout court una ipotesi indefinita di positivismo.
In sostanza deve cambiare il nostro mestiere di interpreti possibili della necessità della polis: quella, cioè, che con linguaggio filosofico si definirebbe “del dover essere della politica”.
Il “dover essere della politica” viene meno nel momento in cui gli intellettuali si adeguano al messaggio corrente, non scavano più nel profondo della ricerca, si alienano alla verità e la nascondono nel loro peregrinare esibizionista e servile verso il potere.
L’ultimo decennio del secolo scorso è stato contrassegnato dall’acquiescenza al concetto di “fine della storia”, di assuefazione al colossale fraintendimento che la fine dell’era della contrapposizione sistemica coincidesse con l’apertura di mercati senza fine e che a quella logica fosse giocoforza adeguarsi.
Si è poi visto che non era così ma non si è tentata la via di espressione di un pensiero critico rispetto a ciò che stava accadendo.
La va della ricostruzione dovrà essere portata avanti in maniera molto più profonda di quella indicata nel semplice recupero della dialettica: servirà fornire ragioni alla critica e al conflitto.
La dialettica può essere impostata confrontando diverse visioni del futuro dell’umanità: ma è proprio questa visione del futuro che è assente dall’orizzonte del pensiero dominante e sembrano proprio tortuose le strade da percorrere per tentarne una ricostruzione utilizzabile anche dalla politica.
FRANCO ASTENGO
7 aprile 2019
foto tratta da Pixabay