Viaggiando attraverso l’Araucanía, regione del Sud del Cile, un occhio inesperto potrebbe non rendersi conto dello scempio ambientale che il territorio ha sofferto e di cui soffre anche il popolo originario, i mapuche.
Il paesaggio è verde, fertile, coltivato ma, a questa affermazione, i mapuche storcono il naso: «La nostra terra non era così e la rivogliamo come prima».
Intorno a noi ci sono quasi esclusivamente alberi di pino ed eucalipto, piante non autoctone. Nel piccolo centro di Nueva Imperial, a un’ora di strada da Temuco, vivono molte comunità mapuche. Qui la vita si svolge in campagna, le famiglie hanno da qualche anno riottenuto piccole porzioni di terra da lavorare. Una terra che è però poca e non più fertile come una volta.
Il disboscamento degli alberi originari è una pratica più che diffusa. L’Araucanía, dove vive la più grande comunità mapuche del Cile, è quasi interamente popolata da piante estranee al territor io, utilizzate per la produzione di cellulosa e di conseguenza di carta.Ci addentriamo nel territorio con Josè Nain Perez e sua moglie Margot. I due hanno voglia di raccontare la propria storia, le proprie rivendicazioni come guardiani della terra. In effetti mapuche, in lingua mapuzumun, significa proprio questo: popolo della terra.
Marito e moglie abitano con due figli in una casa in legno nel comune di Nueva Imperial, dove hanno costruito anche una yurta tradizionale mapuche. Un luogo di ritrovo in cui cucinare, cantare e ballare al ritmo del Kultrun e della Trutruca. Josè e Margot sono i rappresentanti dell’associazione regionale mapuche Folilko e Josè è consigliere comunale a Galvarino, il suo paese natale.
Il loro obiettivo è quello di essere mapuche, vivere in comunità e in simbiosi con la terra. Per farlo, però, serve un grande cambio di passo che la comunità non è del tutto pronta ad affrontare. Le questioni sono infatti complesse e coinvolgono agguerriti gruppi di potere. «Per il nostro territorio – spiega Josè – il pino e l’eucalipto sono le specie più dannose, sono come spugne. Necessitano di un grande quantitativo di acqua e per questo prosciugano le nostre falde, oltre a danneggiare la biodiversità».
Le imprese forestali hanno da tempo mutato la geografia del territorio, rendendo complicata la vita dei mapuche e in genere di chi vive lavorando la terra. «La nostra eredità del periodo di dittatura – continua Josè – è stata il saccheggio dei boschi da parte delle imprese forestali».
Ed effettivamente la legge forestale 701 è una di quelle sopravvissute alla caduta di Pinochet. L’Industria Forestale in Cile si riflette principalmente in due gruppi economici, Matte (CMPC) ed Angelini (Copeco- Arauco- Celco). Le due imprese controllano circa il 70% del suolo coltivabile dell’area. Durante la dittatura, ma anche negli anni successivi, le due potenze economiche hanno ricevuto quantità ingenti di terre gratuite e sovvenzionamenti statali.
Il rapporto impari tra lo Stato e le imprese è ben visibile anche nella zona di Nueva Imperial, dove, le forze di polizia cilene sono quotidianamente impegnate a controllare che il disboscamento non venga «disturbato» dalle comunità locali. «Tutta la vegetazione – spiega Margot, mostrando la coltivazione della sua famiglia – ha per noi mapuche un significato, il territorio ci dà vita e forza. Per essere in armonia con il mondo, la terra deve stare bene. Il nostro popolo utilizza le piante sia come fonte di nutrimento che come rimedio per curarsi. Un’armonia che lo stato ha tolto al nostro territorio da tempo».
Josè e Margot coltivano il maqui, un frutto simile al mirtillo e con grandissime proprietà antiossidanti che viene utilizzato come rimedio per molte patologie, dalla febbre ai problemi cardiovascolari, ma possiedono anche piccoli appezzamenti di piante di lupino e alberi di nocciole che hanno in mente di vendere anche in Italia tramite progetti di commercio solidale. Insieme ad altri nove mapuche è stata poi creata una cooperativa che produce una sorta di caffè d’orzo. Cooperativa che punta a preservare la terra con coltivazioni non invasive e realizzare un prodotto sano ed etico.
Per riottenere porzioni di terra da coltivare e in cui vivere i mapuche hanno messo in piedi una grande battaglia contro lo stato cileno nei primi anni Duemila. «Quando, dopo la fine della dittatura, abbiamo lottato per riprendere parte della nostra terra – spiegano Josè e Margot – abbiamo ottenuto pochissimo. Ad ogni colone (imprese forestali, ndr) sono stati assegnati 500 ettari di terra, alle famiglie cilene 60, mentre solo 6 a noi mapuche».
La lotta per la terra è costata cara a Josè, Margot e a molti altri mapuche. Entrambi sono finiti in carcere. «Mi presero – racconta Margot – mentre stavo stampando dei volantini. Mi picchiarono così forte che arrivai in ospedale priva di sensi, ma nonostante questo mi sento fortunata perché non ho dovuto sopportare la violenza che invece è toccata a molte altre donne». Uno dei grandi problemi delle coltivazioni è quello idrico. Circa 120mila famiglie dell’Araucanía non dispongono di acqua potabile. Per questo lo Stato raziona la quantità fornendo circa 200 litri settimanali a ciascuna famiglia. A questo si aggiunge il cambiamento climatico, dovuto anche al disboscamento selvaggio, che non risparmia la regione fino a pochi anni fa molto piovosa: le precipitazioni sono diminuite e le estati arrivano a 35 gradi.
Poco lontanto da Nueva Imperial c’è poi una un’altra preoccupazione ambientale per i mapuche: il progetto minerario a Est del comune di Melipeuco. Dal 2008 la società Minera Lonco sta effettuando studi di esplorazione geologica per determinare i gradi e la potenza metallifera sia dell’oro che del rame. Dal 2012 questi studi hanno confermato l’esistenza di ingenti depositi. Giacimenti così grandi da far sì che la stessa società consideri lo sviluppo della miniera come il loro più grande progetto.
I progetti potrebbero coinvolgere più di 1.500 ettari e andare ad impattare sulle già scarse risorse idriche del territorio e sulle comunità mapuche che nella zona hanno interessi turistici, agricoli e zootecnici. «La comunità mapuche a Melipeuco – spiegano – sta organizzando forme di resistenza alla miniera. Per difendere il territorio molti di noi sono pronti a sacrificare la propria vita». Tutti questi cambiamenti, passati e in previsione, hanno profondamente mutato la geografia di una regione. «Per come la nostra terra è stata rovinata – concludono – lo Stato cileno ha verso di noi un enorme debito. Tutto quello che ci sembra concesso è solo una minima parte del nostro diritto di popolo originario».
ALICE PISTOLESI
foto tratta da Pixabay