Le prime pagine dei quotidiani di ieri 8, febbraio, dal Figaro a Le Monde, da Libération al cattolicissimo La Croix, sono tutte prese dalla «crisi diplomatica senza precedenti» tra Francia e Italia. Sono, «fortunatamente», a Parigi, e i colleghi francesi mi offrono scherzosamente «asilo politico». Sorrido, ma non troppo. Mi viene in mente quello che Alfassio Grimaldi e Bozzetti, in un libro del 1974, chiamarono «il giorno della follia», il 10 giugno 1940. L’Istituto Luce, realizzò poco dopo un vibrante montaggio del discorso del duce, di cui si consiglia la visione: mostra il duce in tenuta da comandante militare (non si sa di quale arma) con le mani alla cintola, la mascella più volitiva che mai, e la bocca feroce, che fa in pompa magna, il suo annuncio al «popolo» adunato sotto il balcone di Palazzo Venezia:
«Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano».
La Francia era in quel momento piegata: il repentino crollo delle difese davanti alla micidiale macchina da guerra germanica, finì per vincere le ultime esitazioni di Mussolini, fino ad allora incerto sull’ingresso nel conflitto, un passo a cui tuttavia l’alleanza con Hitler non lo obbligava avendo i tedeschi avviato nel settembre ’39 le ostilità senza consultare l’alleato italiano, come invece prevedeva il Patto d’acciaio del maggio ’39.
L’attacco alla Francia fu chiamato dagli antifascisti «la pugnalata alla schiena». E una larga parte del mondo intellettuale, che alla cultura d’Oltralpe si era sempre ispirato, versò lacrime, almeno nel foro interiore: nessuno ebbe il coraggio di esporsi. E del resto il duce, nella sua megalomania, apparve refrattario agli avvertimenti dei responsabili delle tre Armi, che lo sconsigliavano. La Francia gli pareva, a differenza dell’Inghilterra (che però sembrava lontana), un boccone facile da trangugiare: e a lui sarebbero bastati un pugno di morti per sedersi al tavolo delle trattative, nella convinzione che il conflitto sarebbe stato rapido, come lasciavano credere le prime impressionanti vittorie naziste nel loro blitzkrieg. Nella testa del duce, almeno Nizza e Mentone, sarebbero state facilmente recuperate al territorio patrio…. Le cose andarono diversamente, come è noto.
E la pugnalata ai «cugini» francesi segnò l’avvio della catastrofe del regime.
Del resto, anche prima di quel gesto improvvido, nel dibattito in seno al fascismo, le pulsioni antifrancesi erano state forti: era la stessa odiata Francia degli «immortali princìpi» irrisi da Mussolini molti anni prima. E l’intervento del ‘15, sebbene accanto alla Francia, non aveva mitigato le polemiche contro la «patria della democrazia», da parte di uno schieramento ideologico che faceva capo ai nazionalisti, che, a guerra archiviata, avrebbe condizionato e poi diretto le scelte del fascismo al potere. Anche se non erano mancati coloro che, rispolverando le camicie rosse garibaldine, si erano arruolati nell’esercito di Parigi contro i «crucchi».
E nel ’29 fu a Parigi che Carlo Rosselli fondò Giustizia e Libertà, colonna della «Concentrazione Antifascista». E in tutta la Francia trovarono rifugio personaggi eminenti da Turati a Silvo Trentin, da Lauro De Bosis a Salvemini…
Nell’Italia veleggiante verso l’autarchia, non furono poche le polemiche verso le «francioserie» (Ugo Ojetti arrivò a parlare di «mal francese», per indicare l’influsso pernicioso, a suo dire, di Parigi sull’arte italiana). E dopo le sanzioni imposte all’Italia per l’aggressione all’Etiopia, i francesi divennero un bersaglio facile, accanto agli inglesi: il senso era: voi le colonie ce l’avete, ora volete impedire che noi ne abbiamo?
Parole e pensieri in qualche modo evocate nella nostra mente davanti alle bizzarre (e pericolose diplomaticamente) esternazioni di alcuni leader M5S, i quali tentano goffamente di presentare una Italia anticolonialista e dunque antifrancese. Ma è difficile polemizzare con i francesi che respingono i migranti (vero), se l’Italia poi li blocca in mare, o peggio li rimanda nei lager libici, a morire di fame e torture. E va ricordata quanto meno la guerra di Libia in cui una pur recalcitrante l’Italia si accodò, bipartisan, a Sarkozy. Anche Macron è, con maggior prudenza, un ultraliberista colonialista. E le nostre imprese petrolifere hanno una condotta eticamente più corretta di quella della Total o della Erg? Ma «il governo del cambiamento» ha bisogno, come ogni regime in costruzione, di individuare un bersaglio esterno, contro cui indirizzare la rabbia degli esclusi. Una storia che conosciamo, e che non ha portato mai bene.
ANGELO D’ORSI
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