In un bellissimo libro fotografico dal titolo rievocativo Asylum, qualche anno fa Cristopher Payne ha pubblicato più di duecento immagini, di sorprendente potenza, riprendendo facciate ed interni di grandi (a volte immensi) ospedali psichiatrici americani, dismessi e abbandonati verso la fine del secolo scorso.
Negli anni Cinquanta erano quasi seicentomila gli internati negli ospedali pubblici degli Stati Uniti. Qualcuno capace di cinquemila posti letto.
Le immagini potenti di luoghi vuoti, a volte di grande bellezza architettonica, si alternano alle foto di infinite suppellettili, indumenti, oggetti d’uso della quotidianità abbandonati come all’improvviso, come in un macabro racconto di Stephen King. In effetti il vento formidabile del liberismo non fu certo meno potente di una devastante generale epidemia.
Nessun nobile intento nella politica di deospedalizzazione selvaggia dell’epoca laggiù, ma l’incontro tra una versione dissennata dell’antipsichiatria e l’abbandono di qualsiasi forma (anche perversa) di protezione sociale dei più deboli. Ancora oggi strade della California, Los Angeles, S. Francisco, ospitano quel folto popolo disperso, espulso dai falansteri giudicati alla fine solo inutilmente costosi.
Italia 1978: la legge 180 decide del destino a termine degli ospedali psichiatrici. Per tutt’altri motivi, dentro un nuovo paradigma, rovesciando il passato remoto e prossimo. Erano settanta e ci vollero vent’anni e un nuovo ministro, Rosy Bindi, per vuotarli davvero in un lento percorso tra pratiche nobili e ignavie colpevoli.
Qualcuno ha voluto chiedersi che ne è di quei luoghi. A Trieste, Giancarlo Carena ha curato un convegno con tante voci, un incrocio di architetti, storici, sociologi, psichiatri, giornalisti, paesaggisti, cittadini.
Con nobili intenti e ammirevole attenzione vent’anni fa la Fondazione Benetton aveva esteso a tutto il Paese una ricerca, producendo una cartografia dei settanta compendi che doveva stimolare l’attenzione al loro destino da parte dei pubblici poteri. Comprensori spesso di grande pregio architettonico, collocati sovente in aree pregiate delle città, potenzialmente dedicabili come beni comuni a usi ben più apprezzabili di quello prodotto dalla nefasta (grandiosa) utopia dei costruttori dei manicomi.
In molte città quei luoghi hanno ancora un nome potente non dissolto. S. Maria della Pietà, Paolo Pini, San Salvi, S. Giovanni, il Romcati, il Sant’Orsola San Servolo e San Clemente il Frullone il Bianchi, Collegno San Lazzaro, Monbello, Colorno, Nocera Volterra, Aversa, Girifalco, Castiglione, nomi di intere cittadine o di siti entrati nel linguaggio comune come stereotipi evocativi tuttora di quell’identità (e dei relativi fantasmi). Pochi casi di rigenerazione totale: Treviso, S.Clemente e poco d’altro, parziale recupero a S. Maria della Pietà e pochi altri. In molti casi o per gran parte dei singoli compendi, su di loro è davvero sceso una sorta di inverno perenne. Da Genova Quarto a Colorno, al Pini, da Pesaro a Napoli incuria abbandono: «non si sa bene di chi è», «non si sa bene che farne», si mescolano ad una qualche epochè di chiara matrice. Per vari anni le Amministrazioni locali avevano qua e là anche immaginato che «a da passà a nuttata» e che questa follia italiana avrebbe dovuto tornare ben presto sui suoi passi e quei luoghi avrebbero, per forza di cose, e di ragione, dovuto tornare al loro destino.
Poi è prosperata, condita dalla cattiva fama dei siti, l’ignavia ormai paradigmatica italiana delle opere che non si fanno mai, al massimo si progettano, non vanno mai a gara, se vanno a gara si ricorre, e alla fine non ci sono più né interesse né quattrini per fare..
La struggente bellezza e potenza degli edifici storici di Quarto, gli infiniti spazi del San Salvi a Firenze, il parco del Pini a Milano restano popolati di ombre del passato e di qualche struttura di second’ordine delle aziende sanitarie.
Ma non è neanche breve la lista delle azioni di resilienza e delle pratiche buone che si giocano li.. Come non citare lo straordinario lavoro politico del teatro di Claudio Ascoli e di collettivi giovanili nel San Salvi di Firenze, il dinamismo imprenditorial culturale di Olinda e di Thomas Emmenegger al Pini di Milano, il lavoro teatrale di Claudio Misculin a Trieste, il Quarto Pianeta a Genova… Ma poi, a Trieste il Parco culturale di S. Giovanni: il Museo dei bambini, Il Posto delle Fragole, la cooperativa Lister, le sedi eleganti dell’Azienda sanitaria, dell’Università e del Comune, Teatro, bar, laboratori culturali e le seimila rose parlano davvero d’altro, mantenendo vivo un luogo normale e anomalo, bello e ancora potente, rinnovato pur ancora con sue forti ferite.
In Italia musei e archivi un po’ ovunque, forse troppi e dispersi; disperse le pratiche anche se il filo rosso di un pensiero divergente, unisce tanti posti diversi.
Potrebbero essere molti di più. Per una più ricca ed aperta “normalità” per dei luoghi che qui qualcuno ha definito antropoietici, produttori di umanità.
Il Convegno è stato un ricco e riuscito invito a architetti, urbanisti, giovani artisti, associazioni, cooperative, amministratori pubblici a occupare questi straordinari spazi, farli uscire dalla penombra, onorarne la memoria con usi rovesciati. Parchi culturali che facciano di maggior libertà la propria bandiera, perché questi luoghi, testimoniando in concreto la restituzione alla società di tutto quello che veniva negato chiudendolo dentro, ci ricordino sempre che, come sta scritto da quarant’anni sul muri di uno di essi «La libertà è terapeutica».
Per realizzare un segnale forte di tutto questo Domenico Luciani, padre nobile di una grande idea di recupero, invita tutti a ritrovare memoria di pertinenti leggi sugli usi civici e i beni comuni. Evocando la comunità responsabile che potrebbe, come prevede quella legislazione, assumere il governo di questi straordinari patrimoni di storia, cultura e urbana ricchezza.
FRANCO ROTELLI
foto tratta da Pixabay