Chi ricorda i governi antecedenti al ventennio berlusconiano, quelli di Craxi, Forlani, Andreotti, comprenderà lo smarrimento provato nel sentire ieri sera le parole del Presidente del Consiglio durante l’intervista di Giovanni Floris nel programma de La7 “Di Martedì”.
Lo smarrimento nasce dalla mancanza di visione organica della politica del e per il Paese: non si tratta di affermazioni meramente retoriche, per stigmatizzare il governo giallo-verde e niente più. Si tratta davvero di un vuoto complessivo che si riempie soltanto di richiesta di tempo per mostrare e dimostrare che questo esecutivo in cinque mesi ha fatto una rivoluzione normativa mai vista e che dovrebbe rovesciare il livello di qualità della vita del popolo italiano dal livello “disastro” al livello “meraviglia”.
Soltanto ci vuole “tempo”. E questo Conte lo ripete tante volte, troppe volte. Stucchevole quanto basta, o forse non basta mai perché in tema di riforma del sistema pensionistico e del mercato del lavoro (quindi sul tanto agognato “superamento” della Legge Fornero) il Presidente del Consiglio non dà numeri certi, non dà date certe, non risponde nemmeno all’obiezione di Floris se si sia ad un primo passo verso l'”oltre” che riguarda una delle norme più odiate dagli italiani oppure se quanto previsto con la ormai celebre “quota 100” interpreti il concetto di “superamento” della legge fatta dalla professoressa Fornero.
Conte non risponde se non di rimando: lascia tutto sospeso nell’aere di un trasognante orizzonte che parla di vicinanza al popolo, di avvocatura del popolo, di difesa del popolo ma che non traduce in concretezza nulla.
Sul tema dell’immigrazione né una parola, né un concetto sul respingimento disumano fatto nei confronti delle navi Aquarius e della triste vicenda della Diciotti.
L’immigrazione va regolamentata nella fase dell’accoglienza – sostiene il Presidente – e questo è un presupposto che è universale, appartiene ossia alla logica del buonsenso e dell’umanità: un buonsenso politico e sociale e una umanità morale che deve essere preservata.
Ciò detto, però, uno dei suoi vicepresidenti non fa che promuovere politiche di restrizione dei diritti civili, convincendo il Paese che l’equazione famosa “immigrazione uguale problema sicurezza” sia un dato di fatto, un dogma, una realtà indiscutibile proprio perché non è concesso discuterne in termini umani senza essere accusati di “buonismo”, quindi di una cedevolezza pietistica a sentimenti di dignità ed uguaglianza sacrificandovi il bene del proprio popolo.
Conte dribbla tutto questo armamentario leghista che si trova al governo e che lui accetta: perché, in tutta evidenza, i fatti dell’Aquarius e della Diciotti avevano qualificato ampiamente il carattere repressivo ed esclusivista del governo e chiunque abbia accondisceso a quelle politiche di respingimento disumano, ha sposato – volontariamente o meno – le tesi di Salvini.
In tema di politica estera, poi, Conte ammette di ritenere Trump un uomo pragmatico, uno “che non fa tante parole“: pensare che Trump proprio con le parole è maestro, nei suoi comizi dove invece di discutere di economia e di sociale, si accanisce contro i latino-americani, spedisce l’esercito americano alla frontiera con il Messico e continua a far erigere il muro tra i due paesi per evitare che i migranti entrino ed invadano gli Stati Uniti.
Forse il Presidente del Consiglio intendeva dire che è Trump è uno che bada al sodo delle questioni e che non si perde in tanti giri di parole: l’esatto contrario di ciò che invece ha dimostrato lui davanti a Floris. Il bizantinismo applicato al linguaggio per poter dimostrare che nel governo non esistono litigi, contraddizioni e che, alla fine, tutto sommato, si va sempre d’accordo.
Precisa Conte: “Io non ho firmato il Contratto di governo. L’ho condiviso“. E’ una specificazione importante, come a dire: non c’è la mia mano lì dentro, ma lo faccio mio come “garante” (ripete spesso questa parola attribuendosela come ruolo fenomenico dentro al suo ruolo istituzionale) per due forze politiche diverse ma che, come ben si vede, sanno gestire le contraddizioni anche più aspre.
Prescrizione, giustizia, processi, Agenzia Spaziale Italiana, licenziamenti in tronco, l’ICI mai pagato dalla Chiesa cattolica e che il governo non sembra intenzionato a farle pagare, TAV, TAP, un po’ di tutto insomma su cui le due parti contraenti che siedono a Palazzo Chigi litigano amorevolmente. Conte vigila e tiene unito il governo. Così dice.
“Durerà a lungo“, dice a Floris proprio mentre l’intervista finisce. “Vedrà che durerà a lungo“.
Dipenderà dal risultato delle elezioni europee, da come andrà a finire non solo in Italia ma nel resto dell’Unione dove i cosiddetti “sovranisti” avanzano pericolosamente e dove in effetti una alternativa a questi mostri bicefali che governano Paesi come l’Italia non si vede proprio.
In mancanza di una alternativa, dunque, ci si gode ciò che c’è e che ogni giorno non fa che consentire l’avanzamento di una arretratezza culturale, politica, sociale e morale impressionante: la Regione Lombardia approva, ad esempio, una mozione in cui si premiano i comuni che faranno a meno della mano d’opera migrante per pulire parchi, fare lavori socialmente utili, perché la logica che deve ispirare le nuove normative è: “Prima gli italiani”.
Anche quando i migranti dimostrano con tutta evidenza di essere persone come noi, di voler dare una mano e di non stare con quelle mani in mano con cui li costringono a stare coloro che li gestiscono male attraverso cattive legislazioni merito, anche quando ciò avviene non va bene, bisogna trovare il modo di limitare sempre più gli spazi di vivibilità delle differenze e dell’integrazione.
Anzi, dall’integrazione si passa alla disintegrazione: laddove il migrante trova un momento di confronto con l’italianità, lì deve essere allontanato. Perché, o grande benevolenza del leghismo!, prima vengono gli italiani. Non più i padani. Gli italiani. Che importa se sono meridionali. Siamo tutti fratelli italiani e la Lega l’ha scoperto dopo vent’anni di voglia di secessionismo e di creazione prima della “Repubblica del Nord” e poi della “Padania”.
Il giuramento di Venezia è poi non così tanto lontano nel tempo…
Ma i tempi cambiamo velocemente e quindi il governo di Giuseppe Conte deve tenere insieme chi prima delle elezioni si disprezzava cordialmente e, per fare gli interessi del “popolo”, le liti saranno sempre ricomposte.
“Cos’è il popolo per lei“, chiede Floris a Conte: “Sono gli azionisti della maggioranza“.
“Dunque, il popolo è chi ha votato le due forze di governo. Gli altri non sono il popolo? Non sono consentite forme di pensiero diverse da quelle del governo?“, incalza il giornalista.
Conte risponde che il popolo siamo tutte e tutti noi: anche coloro che la pensano diversamente e hanno diritto di pensarla diversamente. Del resto, si può rispondere al “proprio popolo”, ma poi alla fine della fiera il popolo è una struttura interclassista, interpolitica, interpartitica. Non la si può ridurre ad una unità totale perché è, per antonomasia, una composizione eterogenea che diventa esprimibile come concetto politico dentro all’alveo della nazione.
Ma nemmeno queste risposte mi convincono: non trovo la pienezza della contrarietà che c’era nelle proposte democristiane di tanti anni fa oppure nella fierezza craxiana nel portare avanti politiche incondivisibili ma pur sempre pregne di contenuti forti. Fin troppo forti.
C’era, nei governi del Pentapartito, una visione molto chiara sul “che fare” e sul “per chi fare”.
Il governo Conte mi appare, se raccontato dal suo Presidente del Consiglio, un libro di belle intenzioni, un programma nemmeno tanto dei sogni, perché i sogni sono per me sempre un riferimento positivo, una fuga dalla realtà. Mi appare come quelle scene hollywoodiane dove sembra esista la città del West e dove dietro ci sono le travi di legno a sorreggere i pannelli che figurano saloon, botteghe di barbieri, beccamorti e uffici di sceriffi.
Ecco, l’apparenza vince sulla sostanza nei discorsi del Presidente del Consiglio. Purtroppo la sostanza prevale sull’apparenza quando a fare politica sono Di Maio e Salvini. Perché il governo appartiene a loro.
Ed allora viene quasi voglia di rimpiangere l’apparenza
MARCO SFERINI
7 novembre 2018
foto tratta da Pixabay