Esiste ancora la suddivisione in classi, fondata sull’antica “contraddizione principale” in una società di massa percorsa dal veleno dall’esigenza insuperabile del consumo dell’immediatezza comunicativa?
Agnes Heller (intervista all’Espresso del 30 settembre 2018) lo nega decisamente: l’allieva di Luckas considera la suddivisione in classi un’illusione, e giudica i partiti politici tutti rinchiusi nel recinto del populismo perché si rivolgono a tutto il popolo (“catch all party”) costruendo narrazioni.
Un’osservazione da tenere in conto quello della filosofa ungherese che nella stessa intervista sostiene l’impossibilità di superare la linea della “democrazia liberale” pur ammettendone la crisi.
Un’opinione da discutere soprattutto se si pensa, come nel caso di chi sta elaborando questa nota, la necessità di “ricostruire” un soggetto della sinistra politica rimanendo convinto che, in questa fase di tumultuosa modificazione nei parametri di riferimento, sia indispensabile un ritorno in profondità nella ricerca teorica.
E’ cambiato radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica.
In Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche.
Si tratta di occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della democrazia” cercando proprio di smentire l’assunto di fondo sostenuto da Heller circa l’impossibilità di superare la cosiddetta “democrazia liberale”.
In questo caso l’individuazione del permanere della strutturazione in classi all’interno della società dell’informatica e del “messaggio immediato” (nella sostanza dell’individualismo inteso come “forma sistemica”) appare punto del tutto decisivo e fondamentale.
La storia delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia pratica.
La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha come proprio obiettivo l’analisi dell’incessante discorso sulla politica, sulla sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l’intero arco cronologico della civiltà occidentale.
Nel fare la storia delle dottrine politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza dichiaratamente politica.
Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta.
Esistono, certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono.
Si può, infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee- guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”).
E’ possibile tentare l’esplorazione del “politico” nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale.
Si può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l’urgenza della determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio quegli equilibri di potere cui già accennavamo.
Oppure si può esplorare l’intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il cosiddetto “spirito del tempo”, formando l’opinione pubblica.
Ancora: si può cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri.
Tutto dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi, fra storia e progetto.
Disgiungere questi elementi e cercare la via di un pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita.
In questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa:
a) definire i termini reali in cui si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra ‘800 e ‘900. Una “modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di Hegel.
Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta (lo Stato e la legge morale dell’individuo, che ne ha regolato il funzionamento effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi utopie: tragiche utopie?).
Questa fase si è esaurita nell’esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla “rifondazione marxiana”.
Dopo aver rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica: in questo si ritorna alle affermazioni di Heller;
b) Inquadrato il punto precedente, da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico” cui appunto Heller sembra proprio arrendersi, il nostro compito diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del moderno.
Per avviare un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di spezzare, o almeno di articolare l’ottica occidentale della lettura della storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità; libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite.
Globalizzazione, sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione morale.
Attorno a questi fattori, parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di rispondere (fallendo) contrabbandando la riduzione delle “fratture” quale sola risposta esaustiva alla legittimità del “comando politico”.
Deve, invece, andare in discussione,al fondo questo tipo di formalizzazione data per universalmente acquisita.
Occorre recuperare la capacità dell’intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della pluralità, del conflitto, dell’immanenza, del materialismo, non cedendo all’idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità (Habermas).
Si tratta, prima di tutto, di chiamare a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, dalle dialettica della storia.
Una dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione politica ridotta all’“individualismo competitivo”.
Il ritorno alla rappresentazione politica della “contraddizione principale”appare, in questo senso, come il fondamento della ricostruzione della sinistra.
Beninteso comprendendo appieno come la contraddizione risulti allargata a un insieme di “fratture” (il cui catalogo andrebbe aggiornato rapidamente) a partire dall’apparentemente insuperabile doppia condizione di sfruttamento nella diversità di genere e l’evidente conflitto tra condizione del territorio e sviluppo tecnico, scientifico, della produzione di merci.
Sotto quest’aspetto va ricordato il tema de rapporto tra politica e tecnica al riguardo del quale correnti filosofiche considerano ormai come avvenuta la riunificazione tra scienze, tecnica e politica all’interno dell’acquisita egemonia della tecnica.
La sinistra è così chiamata al compito di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine della storia”, della semplificazione delle contraddizioni sociali, della tecnica come espressione diretta dell’azione politica e, nella sostanza, del predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’essere che si esprime ormai esclusivamente attraverso il web.
Soprattutto questo dovrebbe essere il compito di quegli intellettuali che non intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.
FRANCO ASTENGO
4 ottobre 2018
foto tratta da Pixabay